12. Why I beat Cameron Bennett up

1K 138 15
                                    

Dopo la conversazione con Michael non ho più chiuso occhio, anche se non so bene per quale motivo. Sono tornato nella mia camera con la speranza di dormire un altro paio d'ore, ma alla fine mi sono ritrovato a fissare il soffitto bianco, impaurito da ciò che mi avrebbe accolto dopo aver chiuso gli occhi, in pensiero per il mio migliore amico e agitato anche per il temuto incontro con Cameron Bennett e i miei ricordi, sempre più vicino.

E ora eccomi seduto su una sporca e scomoda panchina, aspettando con Michael che arrivi la metropolitana diretta in centro, dove Cameron dovrebbe ancora abitare con la sua famiglia, e intento in tutti i modi a non addormentarmi proprio adesso.

«Allora?»

Mi volto verso il mio migliore amico e gli rivolgo uno sguardo confuso, mentre lui sospira.

«Hai intenzione di dirmi qualcosa su questa Cameron?»

Oh, giusto. Per un attimo avevo sperato che si fosse dimenticato di dovermi ancora fare l'interrogatorio.

«Non è nulla di interessante,» mi limito a dire, sperando seriamente che lui rinunci alla sua impresa. Tuttavia, lo sguardo che mi rivolge è talmente agghiacciante che non posso fare altro che assecondare il suo volere. «D'accordo. Cameron Bennett era semplicemente la ragazza più bella e dolce che si possa immaginare. Sai, non si avvicinava affatto al solito stereotipo della bionda stupida e tutta vestita di rosa. Era popolare, questo sì, e i suoi capelli saranno pure biondi, ma aveva degli interessi ed era sempre gentile con tutti, nonché la ragazza più ambita di tutto il Norwest Christian College,» spiego, ricordando ancora adesso come gli sguardi di buona parte dei ragazzi si puntassero subito su di lei al suo passaggio, quasi come se la sua figura fosse una specie di calamita. «Avevo una cotta stratosferica per lei e mi fermavo sempre vicino al suo armadietto per sentirla parlare di Shakespeare con le amiche. Quando citava qualche sonetto o un'opera teatrale le si illuminavano gli occhi e aveva un sorriso splendido sul volto, era... era meravigliosa.»

Mi interrompo, rendendomi conto di aver parlato per qualche minuto senza interruzione, e mi accorgo che Michael mi sta guardando, confuso. So con certezza cosa possa passargli al momento per la testa: per quale dannato motivo il suo nome è scritto su quell'agenda, allora?

«Quel giorno, dopo essermi svegliato, sono uscito dalla mia camera per fare colazione, ma sono rimasto bloccato davanti alla porta della stanza di mia sorella,» sussurro, decidendo di iniziare il mio racconto dall'inizio di quella giornata, così da far capire a Michael qualcosa di più rispetto al solito "non so perché l'ho fatto". «Stava singhiozzando di fronte al suo specchio, osservando i lividi che...» mi interrompo, sentendo un improvviso vuoto allo stomaco.

«Non devi continuare se non te la senti, Calum,» dice, con una serietà che non credevo potesse assumere.

Scuoto la testa, facendogli capire che voglio continuare, visto che ho tenuto questa storia dentro di me per troppo tempo, ma proprio in questo momento arriva la metropolitana che stavamo aspettando, così ci alziamo dalla panchina ed entriamo nel vagone più vicino a noi, venendo travolti da un odore forte e insopportabile. Qualcuno stamattina non si è fatto la doccia. O tutta la settimana.

Prendiamo posto e io ringrazio il cielo che la luce di questo vagone sia così pallida, almeno posso giustificare in qualche modo il colore che il mio viso deve aver assunto al pensiero di quel giorno, uno dei tanti che vorrei essere in grado di dimenticare.

«Da molti giorni Mali Koa tornava a casa in condizioni terribili, ma quella mattina l'ho sentita gemere di dolore mentre si guardava allo specchio e nei suoi occhi c'era una tristezza incredibile, anche se finalmente avevano ripreso vita. Di solito era come avere accanto uno zombie o qualcosa di simile: impassibile, persino di fronte alle lacrime di mia mamma che non sopportava più di vederla tornare a casa con il viso gonfio e viola.»

Michael prova a dire qualcosa, ma gli rivolgo uno sguardo che gli faccia capire di non interrompermi proprio adesso.

«Sono arrivato a scuola in ritardo e non mi sono nemmeno preoccupato di seguire le lezioni. Continuavo a pensare a mia sorella e ai suoi numerosi rifiuti di mettere fine a quella storia e tornare... libera. Diceva di essere innamorata, ma forse soggiogata sarebbe stato più adeguato. Quel mostro la picchiava e lei non voleva fare nulla, diceva che era un ragazzo difficile e che avrebbe imparato a controllare la sua gelosia, ad amarla in modo... sano,» mi interrompo per qualche istante e noto che il mio migliore amico ha gli occhi rossi e lucidi, come se stesse trattenendo in tutti i modi le lacrime. «Quando è suonata la campanella dell'intervallo sono uscito di corsa dalla classe e mi sono ritrovato davanti all'armadietto di Cameron. Le era caduto un libro e io non ci ho pensato due volte a raccoglierlo per poi porgerlo alla bellissima proprietaria. Non ho fatto neanche in tempo a leggerne il titolo perché lei l'ha preso in fretta e ha provato ad allontanarsi il prima possibile da me, prima che la fermassi. "Hai paura di me?" le ho chiesto e, nonostante cercasse di negarlo scuotendo la testa, i suoi occhi dicevano il contrario. "Dimmi la verità," ho detto poi e, questa volta, ha annuito. Sapevo perfettamente cosa la spaventasse di me, ma lei ha preso coraggio e mi ha urlato contro che ero un mostro e che non avrei dovuto picchiare Mark, Ryan e Luke. Forse voleva attirare su di noi l'attenzione degli altri studenti, così da essere salvata dal lupo cattivo.»

«E poi cosa... cosa è successo?» chiede Michael, balbettando.

Sospiro e gli rivolgo un sorriso amaro. «Non è evidente? Ho pensato a quanto lei mi piacesse, a Mali Koa e al suo amore per quel mostro che la picchiava e ho pensato che magari Cameron...» mi interrompo, prendendomi la testa fra le mani. Dio, sono stato così stupido.

«Va tutto bene, Calum,» dice Michael, cercando di consolarmi, ma io scuoto la testa.

«Non va affatto bene e non andava bene nemmeno a quei tempi. Cameron si è messa a piangere e di sicuro ha iniziato a odiarmi. Poi è arrivato persino il preside e lei ha detto che non era successo nulla, come se il senso di colpa per averle dato uno schiaffo non fosse già abbastanza.»

La metropolitana si ferma alla nostra stazione e io ringrazio il cielo di questa piccola distrazione, che mi permette di regolarizzare il respiro quanto basta per non scoppiare a piangere.

Michael ed io scendiamo dal vagone in silenzio e, sempre senza dire una sola parola, usciamo dalla stazione, ritrovandoci immersi nel traffico di Sydney. Ci incamminiamo verso il palazzo dove viveva con la sua famiglia ai tempi del liceo e che dovrebbe essere ancora la sua residenza. Ognuno di noi è perso dietro ai suoi pensieri e, nonostante non sia possibile sapere cosa passi per la mente del mio migliore amico, sono abbastanza certo che anche i suoi non siano molto positivi, soprattutto a giudicare dal suo sguardo quasi perso nel vuoto. Forse non avrei dovuto parlargli anche di Mali Koa, ma non avrei potuto fare altrimenti, anche perché prima o poi questa storia sarebbe venuta fuori ugualmente, per forza.

Nel giro di una ventina di minuti ci ritroviamo di fronte al portone di casa Bennett, dopo aver convinto una vecchietta che era di passaggio ad aprirci quello del palazzo visto che il citofono era rotto.

Premo, con non poca esitazione, il dito sul campanello e attendo che qualcuno venga ad aprirci. Questa volta penso che sarò io a prendere la parola, visto che Michael mi sembra ancora troppo sconvolto per farlo come le altre volte.

Dopo un paio di minuti il portone viene aperto quel tanto che basta a mostrare il viso di una donna cinquantenne, segnato da qualche ruga e da profonde occhiaie: la mamma di Cameron Bennett.

«Chi siete?» chiede in un sussurro.

«Sono Calum Hood, signora. Ho bisogno di parlare con Cameron.»

La donna si irrigidisce, per poi rivolgerci un'occhiataccia.

«Mia figlia non è in casa, andate via.»

Sbatte il portone senza darmi il tempo di replicare e io rimango a fissare le venature del legno, chiedendomi se il motivo di questo trattamento è proprio quello che penso, ovvero ciò che ho fatto a sua figlia.

My Victims || Calum HoodWhere stories live. Discover now