18. This is how it started

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«Quindi è iniziato tutto così?»

È Luke a parlare, mentre Michael mi guarda con un'espressione indecifrabile, seduto di fronte a me. 

Di sicuro questo pub è abbastanza squallido per certe confessioni, se così possono essere definite, ma dopo il mio crollo emotivo di neanche mezz'ora fa non sarei riuscito a tornare a casa, perciò abbiamo deciso di sederci a un tavolino, rimanendo a debita distanza da Kennedy Robinson. Naturalmente non sarebbe stato in grado di fare alcunché nelle sue condizioni, sia chiaro, ma Michael ha pensato bene che non fosse il caso che potessi continuare a vedere la sua faccia paonazza per via dell'alcol che ha ingerito nel corso di questa serata.

Così, subito dopo esserci seduti nell'angolo più buio del locale, il mio migliore amico è riuscito a farmi sfogare solo pronunciando il mio nome. Ho iniziato a raccontare ogni cosa dal principio, dalla prima volta che Mali Koa è tornata a casa in lacrime e fingendo di stare bene, nonostante i suoi occhi esprimessero alla perfezione il dolore che provava, ancora non fisico. Ho raccontato di come la sentissi singhiozzare la notte dalla mia camera, mentre implorava che quel verme rispondesse alle sue telefonate. E poi quando una sera è entrata dal portone di casa di corsa, cercando di nascondere il suo zigomo gonfio e rosso, pronto a diventare violaceo nel giro di qualche ora: mamma e papà non l'hanno vista entrare in quello stato, a differenza mia, e a subirne le conseguenze è stato Mark Yates. Altre lacrime, singhiozzi e lividi a non finire, Ryan Warren e Luke Hemmings; poi gli occhi inespressivi di mia sorella, la disperazione di mia mamma, il mio schiaffo a Cameron Bennett, le parole di Ashton Irwin e l'espulsione dal Norwest Christian College; il mio desiderio di vendicarmi e vedere Kennedy Robinson implorare perdono per tutto ciò che aveva fatto e causato.

Ho raccontato tutto d'un fiato e, mentre Luke non ha fatto altro che guardarmi come quando si affronta un problema di matematica, ovvero come se stesse cercando di decifrare e razionalizzare nella sua testa qualcosa che in realtà risulta a dir poco incomprensibile, l'espressione di Michael si è fatta sempre più enigmatica. Ho come l'impressione che lui abbia sempre saputo ogni cosa o che, comunque, sia sempre stato molto vicino al capire da solo quale fosse il motivo di tutto ciò che è successo, persino prima che sulla metropolitana gli raccontassi del giorno in cui ho dato uno schiaffo a Cameron: altrimenti, non sarebbe mai venuto fino a qui stasera e io avrei di nuovo commesso uno sbaglio, dal momento che nessuno mi avrebbe fermato dal picchiare quell'idiota di Robinson e, di certo, neanche un mio ipotetico buon senso, dato che sembra essere del tutto assente.

Sentendo addosso gli occhi azzurri di Luke, mi rendo conto di non aver ancora risposto alla sua domanda di poco fa.

«Sì,» mi limito a dire, abbassando la testa e preparandomi a sentire qualche suo commento sarcastico, del tutto meritato.

«Non ti dirò che hai fatto bene, Calum, sappilo,» dice infatti, in tono severo, e io non mi sforzo neanche di annuire, perché non c'è proprio nulla da dire o da fare. Prenderei a testate il muro se potessi, ma non sarebbe abbastanza doloroso come merito. «Quel Robinson è viscido e disgustoso come ben poche persone al mondo, te lo concedo, ma guardalo.»

Alzo lo sguardo verso l'uomo e lo vedo intento ad alzarsi dallo sgabello su cui è seduto da così tanto tempo che penso gli abbia ormai conferito la forma del suo sedere, per poi cadere rovinosamente a terra, fra le risate generali di gente anche più ubriaca di lui, sempre se possibile.

«Ti sei abbassato al suo livello. Anzi, gli hai permesso di manipolare la tua mente come ha fatto con quella di tua sorella, senza neanche farlo direttamente e di proposito. Te la sei presa con gente debole e indifesa, con un ragazzo che voleva solo aiutarti e ci ha invece guadagnato un irritante tic all'occhio. Avresti solo dovuto proteggere tua sorella, denunciando alla polizia quel verme, e-»

«Luke.»

Finalmente è Michael a parlare e, da come guarda i miei occhi, capisco di aver iniziato a piangere ancora una volta.

«Michael, non parlo per me o Ryan, fin troppo accecata dai suoi stessi sentimenti per provare il minimo rancore nei suoi confronti. Noi abbiamo abbiamo superato ogni cosa, sempre che ci abbia mai colpiti più di tanto, ma Ashton no. Lui rimarrà traumatizzato a vita e lo sai.»

«Sì, Luke, ma Calum si è pentito di quello che ha fatto e adesso-»

«No, Michael,» intervengo, scuotendo la testa e cercando di trattenere altre lacrime al pensiero di Ashton Irwin. Sta per diventare padre e, pur sapendo che ci proverà, non potrà mai dire con vera convinzione a sua figlia di aiutare il prossimo, di fare sempre del bene disinteressato perché è ciò che veramente conta nella vita, ciò che di più gratificante esista: per lui non è stato così, ci ha provato innumerevoli volte, ma in cambio ha rischiato di sbattere la testa contro il pavimento della biblioteca per colpa di un idiota come me. «Luke ha ragione.»

«Ora non serve a nulla piangersi addosso. Ti sei reso conto di aver sbagliato, ma non ti sei limitato a questo: hai cercato le persone a cui hai fatto del male, hai chiesto loro scusa, assicurandoti anche che stessero bene, e questo ti fa onore.»

Scuoto la testa, sapendo che non ha assolutamente ragione.

«Non ho fatto in tempo a parlare con Cameron,» gli faccio notare.

«Lei è morta, Calum. Ci sono cose che non dipendono da noi e lo sai.»

«Allora pensa a Robinson: a lui non ho chiesto di perdonarmi e, se avessi potuto, gli avrei aperto il cranio in due, poco fa. Se solo non mi avessi fermato, io-»

«No,» mi interrompe, sospirando. «Se davvero avessi voluto farlo, avresti potuto,» ribatte, per poi rivolgermi un sorriso. «Non l'hai fatto. Sono fiero di te, Calum.»

My Victims || Calum HoodWhere stories live. Discover now