La verità alla fine di tutto

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John guardava la propria stanza come se non ci fosse mai stato prima. Si sentiva svuotato e perso: senza André, con tutto quello che era cambiato fra loro due in un battito di ciglia, quello che lo circondava non aveva più senso. Si accasciò sul letto, coprendosi malamente con le coperte e non curandosi del mantello che possedeva perché ormai lo considerava una seconda pelle. Aveva gli occhi fissi sul soffitto, fissando il vuoto, inconsapevole di qualunque cosa lo circondasse fino a quando lo vide e il suo cuore cessò di battere per un secondo.

La scritta imponeva su di lui come una spada di Damocle con la sua grafia sbilenca e rabbiosa; nonostante questo però le lettere si leggevano e il loro significato ancora scuoteva John nel profondo. Che cosa sono io? A quella domanda l'uomo ancora non aveva una risposta, ma nel profondo del suo cuore delle parole gli scivolarono nell'orecchio facendolo rabbrividire: un mostro... un mostro.

Forse era quello che era diventato veramente, forse lo era sempre stato, ma lo aveva nascosto nel profondo di sé per tutto quel tempo, perso nelle noie quotidiane e nella routine fino al momento di rottura. E in quella stanza John raggiunse la pena consapevolezza di una cosa che non aveva mai realizzato: prima di allora non era mai stato lui stesso, ma solo quello che le altre persone volevano da lui. Aveva tentato per troppo tempo di essere qualcun altro che essere semplicemente lui gli risultava quasi fastidioso. Non gli piaceva affatto quello che vedeva, si sentiva vuoto, un sacco di carne che risponde solo ai propri impulsi naturali. La sua anima si era dispersa nel tempo.

Che cosa sono io?

L'uomo non riusciva a distogliere lo sguardo da quella domanda, non si muoveva, non sbatteva le palpebre e il suo petto sembrava quasi si fosse marmorizzato sotto il peso della sua stessa coscienza. Gli occhi gli lacrimarono, lasciando piccole tracce sulle sue guance, sottili e delicate come delle ragnatele.

Lentamente si accorse che la realtà intorno a lui stava svanendo: nulla di quello che poteva vedere gli sembrava reale o veramente importante. John non era mai stato un estimatore dell'arte, ma in quel momento la sua vita gli sembrava solamente un'enorme tela dove qualcuno aveva disegnato una vita mediocre e deludente. Si sentiva intrappolato in sé stesso e nella vita che stava facendo. Avrebbe voluto strappare quella tela in cui era incappato ad un certo punto della sua vita, ma non ne aveva le forze. Il silenzio attorno a lui era diventato assordante, tanto da fare male ai timpani, ma John si stava lasciando trasportare in quell'oblio scuro come un bambino che dorme tra le braccia della madre. Si sentiva scivolare lentamente via e nel frattempo stava pensando ad André, alla sua pelle morbida e ai bellissimi capelli ricci rosso fuoco che gli contornavano il viso rendendolo bellissimo. Nella mente dell'uomo rimasero impressi gli occhi di quel ragazzo, come se lo stessero guardando ancora fino a scolorirsi in una tristezza infinita, che gli stava dilaniando il cuore.

John, mentre il silenzio che aveva nel cuore lo stava inghiottendo piano piano, sentì un leggero bussare alla porta. Il rumore era appena percettibile, discreto, ma fece animare quella piccola speranza che fosse André, che lo avrebbe guardato di nuovo e senza dire nulla lo avrebbe abbracciato in quella oscurità e si sarebbe addormentato tra le sue braccia, dimenticandosi tutto quello che era successo e del fatto che lo amava nel modo in cui John mai avrebbe potuto renderlo felice. Invece quando uno spiraglio di luce entrò nella stanza, la figura che si stagliava eretta e imponente non era affatto quella di André, ma era Alba. La donna teneva in mano una piccola tazza fumante, il cui contenuto era molto probabilmente tè, e la appoggiò al comodino che stava al fianco del letto di John e poi si sedette sul bordo, con lo sguardo fiero e serafico rivolto verso il sole del giorno nascente che si intravedeva dalla finestra semichiusa. Alba che porta la luce.

"Ti aspetti che dica qualcosa?" disse John, con la voce ancora impastata e la testa che tentava invano di rifugiarsi nelle pieghe morbide del cuscino. La donna continuò a guardare verso la finestra e ormai a John sembrava più un ologramma che una persona reale.

"Non è stata colpa mia. Non volevo che soffrisse così" disse ancora John, parlando più a se stesso che alla donna che aveva di fianco.

"Come può amarmi? Come può veramente voler condividere qualcosa con me? Come potrei farlo felice? Anche da solo non mi sono mai bastato. Non sono mai stato abbastanza per nessuno, come fa lui adesso a desiderare solo me? Non posso amarlo perché non amo neanche me stesso..." L'uomo prese un profondo respiro prima di riuscire a continuare a parlare senza piangere.

"E' un sacco di tempo che non vivo più: sono sempre sopravvissuto, lasciandomi trascinare dalla corrente, senza mai ascoltare il mio grido interiore. Il mio cuore è ormai di ghiaccio, eppure la sua sofferenza mi distrugge. Ho perso un mondo. Ancora ripenso a come mi guardava e lo avrei dovuto capire prima, prima che tutto questo diventasse così insopportabile; non avrei dovuto abbracciarlo così, guardarlo e accarezzarlo come se fosse mio perché non lo è mai stato, non per davvero."

"Non credevo di potermi sentire così solo pur essendo amato"

Alba emise un sospiro e disse qualcosa a bassa voce che John non riuscì bene a capire, poi lo guardò negli occhi con uno sguardo che John non aveva mai visto negli occhi di qualcuno quando era guardato. Lo stava vedendo veramente, come se riuscisse a percepire perfettamente la verità dentro di lui; guardava e basta, i suoi non lo giudicavano ed era la cosa più bella che John avesse mai provato. Essere visto veramente e in qualche modo capito. Alba si alzò e si avviò verso la porta.

"Resta"

Prima di andarsene la donna si girò verso John e gli sorrise con gentilezza, poi se ne andò richiudendo dietro di sé la porta. E tutto calò nuovamente nel silenzio più assoluto.

Sin HotelWhere stories live. Discover now