35. The deep end is where I live

Comincia dall'inizio
                                    

«Frutta? Io la frutta la mangio solo in forma di distillati.»

«Vuoi morire giovane?»
Voglio morire dentro di te.

Con un colpetto di tosse mi schiarii la gola.
«Voglio morire solo.»
Gli dissi, scocciatissimo, mentre un barlume di luce mi traforò l'iride destra.
Cosa che non sarebbe dovuta accadere, per uno che aveva perso la vista.

Nella mia immaginazione, Avalon era ammantata di luce come un paradiso terrestre, e io la calpestavo come fosse un giardino timidamente sbocciato sotto i raggi solari.
Eppure sapevo dove fosse il suo corpo nello spazio senza vederla realmente.
Era la cosiddetta visione cieca, mi ero fatto spiegare tutto da uno specialista.
Si chiamava così la mia capacità di localizzare un soggetto o uno stimolo visivo nonostante a livello conscio vedessi solo buio, o quasi.

Sembrava fantascienza, sembrava un super potere, eppure i medici mi avevano confermato che fosse reale.
Almeno fino a quando non era accaduto qualcosa..

«Sempre simpatico. Devi mantenere la tua aria da duro.»
Il rumore del cucchiaino tintinnava nella tazza in ceramica.

Te lo mostrerei volentieri quello che è veramente duro, ma scapperesti da questa stanza urlando.

«Io bevo solo da tazze in porcellana.»

«Le tue labbra non possono posarsi su qualcosa di poco nobile

La sentii muoversi mentre ironizzava sulle mie risposte scostanti e giocava con i suoi doppi sensi, posò qualcosa sul comodino e si avvicinò a me.
Immaginai le sue natiche tonde e sode e quel culetto decisamente nobile regalare la sua forma deliziosa al mio materasso in memory foam.

«Va bene, principessa
Mi apostrofò.
«Vorrà dire che la tua colazione la mangerò io.»

Afferrò qualcosa al suo fianco e addentò un frutto profumato che sapeva di un'estate che sembrava lontanissima, quell'anno, come se non volesse arrivare più.
Immaginare le sue labbra schiudersi e affondare nella polpa di un qualsiasi frutto mi sembrava più erotico di qualsiasi film porno hardcore che avessi mai guardato.

«È una pesca, quella? È per questo che profumi tanto di pesca?»

«Mi piacciono le pesche.»

Era quasi scontato.
Le pesche mature e nettarine avevano la sua stessa consistenza e i suoi stessi colori caldi.
Colori che non vedevo, che forse non avrei mai più visto.
Ma i miei sogni erano talmente colorati di glicine che non mi importava davvero, se non più avessi più visto davvero nulla.
Avevo sopportato traumi ben peggiori dei danni alla mia corteccia visiva.

Il profumo fruttato del suo respiro mi carezzò lievemente la guancia, quando la sentii spostarsi poco delicatamente verso di me.
Aveva i piedi scalzi sul materasso e manteneva quel modo di muoversi che aveva fin da ragazzina, quando totalmente ingenua non faceva caso a dove si sedeva e quale reazione avrebbe provocato a chi le stava vicino. 

«Per quale dannata ragione ti stai infilando nel mio letto?»

Si era solo seduta, e io avevo preso a scoppiettare come un tizzone ardente.
«Ti piacerebbe.»
«A me? Ti sbagli.»

«Al tuo corvo, allora.»

Mi venne quasi da ridere perché lo aveva chiamato come se fosse un animale da compagnia, ma mi trattenni soffocandomi in un grugnito poco allegro.

Di mattina dovevo mantenere la mia aria di odio verso il mondo, soprattutto verso chi mi stava rivolgendo la parola prima del caffè.
E verso chi entrava in camera mia con una camicia da notte di quelle con le spalline sottili.

𝑾𝒀𝑺𝑻𝑬𝑹𝑰𝑨Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora