Capitolo 29

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Venni informato della partenza per la finale e semifinale solo una settimana prima. Le ultime partite si sarebbero giocate in un campo da baseball ufficiale, quello in cui si tenevano anche le partite tra le squadre nazionali. Solo che, trovandosi in un'altra città, eravamo obbligati a muoverci in anticipo, per poi rimanere lì fino alla fine dell'evento sportivo, cerimonia di premiazione compresa.

Avremmo condiviso gli spazi con le altre squadre in gioco per sette giorni. Non ero sicuro di voler partire, ma ero obbligato in quanto lanciatore ufficiale della Zefiro.

In quei giorni si sarebbe concluso il campionato autunnale, dopo di che avremmo avuto una pausa dalle partite fino a dopo le vacanze di Natale. Avevamo alle spalle una serie di vittorie e una sconfitta, motivo per cui avremmo dovuto giocarci il secondo posto contro la squadra che avrebbe perso la partita per l'oro.

La partita si sarebbe giocata tra la Briza e la Bech, chiunque avesse perso avrebbe giocato contro di noi cinque giorni dopo, motivo per cui saremmo dovuti rimanere nell'edificio assegnato alle squadre del campionato per almeno una settimana. Tutti sotto lo stesso tetto, avendo a disposizione un solo campo per allenarci tra una partita e l'altra, una sola mensa dove mangiare e riposarci.

Avrei dovuto rivedere mio padre, assistere agli allenamenti della sua squadra nei pochi spazi concessi e avrei dovuto incontrare i giocatori dell'Etesia, che avrebbero partecipato alla premiazione finale, come tutte le squadre che avevano partecipato al campionato.

Non sapevo cosa fosse peggio, ma avrei avuto al mio fianco i miei amici e Julian sarebbe stato lontano, perché lo avrei lasciato con Miguel. Glielo avevo promesso, gli avrei lasciato mio fratello se ne avessi avuto bisogno.

Quando ero partito con Chris non lo avevo contattato perché mi era sembrato crudele includerlo nella relazione che aveva seguito quella che avevo avuto con lui. Forse a lui non sarebbe importato, ma a me sì. Non volevo che Miguel venisse a sapere che lui non era più il mio ultimo bacio. Avevo condiviso quell'emozione con qualcun altro.

Mi piegai per prendere sotto il letto il borsone e lo poggiai sul letto, accanto a Juju.

«Perché non posso venire anche io?», lo gnomo guardò dentro la sacca vuota, come se potessi impacchettarlo lì dentro e portarlo con me.

«Perché questa partenza è solo per i grandi», svuotai il primo cassetto.

«I piccoli dovrebbero giocare, non i grandi», incrociò le braccia e gonfiò le guance.

«Non giochiamo come fate voi».

«Ma giocate», scese dal mio letto e camminò verso il suo. Indossava due calzini spaiati, uno con disegnati dei lupetti e uno con delle pesche.

«È uno sport», gli feci notare, dandogli le spalle per piegare nel miglior modo le magliette per farle entrare tutte.

«Perché non esistono gare anche per fare i castelli di sabbia? Anche quello è un gioco», si arrampicò sul suo letto e si alzò in piedi sul materasso. Il suo obiettivo era la mensola attaccata alla parete. Lanciai un'occhiata al muro e sospirai, distogliendo l'attenzione prima di riportare a galla episodi che avrei dovuto cancellare dalla mia mente.

«Non è uno sport "fare i castelli di sabbia"».

«Dovrebbe, non è facile fare i castelli di sabbia. Vince chi fa il castello più bello».

Stava davvero cercando di convincermi che sarebbe dovuto esistere uno sport del genere. Ma chi avrebbe giudicato i castelli? Un arbitro della sabbia? Scossi la testa e tornai a concentrarmi sui bagagli.

«Samu».

«Dimmi, pulce».

«Tornerai a prendermi, vero?».

La teoria dei calzini spaiatiWhere stories live. Discover now