«Non c'era tempo. Ho agito d'impulso»
«È proprio questo il problema», spiega. Il suo tono è calmo, asciutto. È come se la sua reazione in macchina lo avesse svuotato dalla rabbia incontrollata e adesso sia tornato perfettamente in grado di controllare i nervi. È ancora furioso, ce l'ha scritto in faccia, ma non lo lascia trapelare. «Ti ricordo che non è la prima volta che agisci in modo impulsivo».

Faccio la finta tonta mentre nella mia testa scorrono le scene di me in pasticceria intenta a creare il caos pur di rubare un bigliettino.
«Posso dire in mia difesa che, quella volta, se non avessi seguito l'istinto non avremmo mai avuto l'indirizzo del centro estetico in cui operava un giro di droga e prostituzione?»
«E posso dire che se ti avessero beccata avremmo perso il triplo del tempo per portare tutto alla luce del sole?», mi scimmiotta. «Per non parlare dei rischi a cui saresti stata esposta tu personalmente».
Giusto.
Torno a mangiare per non dire altre scemenze.

Nella stanza piomba il silenzio e viene interrotto dal suono del mio cellulare. Oddio. Evan alza la testa di scatto, puntando gli occhi scuri dentro ai miei. Leggo un mix di emozioni nelle sue iridi: curiosità, rabbia, sfida, nervosismo.
Ci alziamo entrambi e camminiamo a passo svelto verso la borsa. Il suo corpo alle mie spalle così vicino mi fa mancare l'aria e le mie mani tremano mentre afferro lo smartphone per vedere che a chiamarmi è... mia nonna.
Evan legge il nome lampeggiare sul display e fa un passo indietro, quasi imbarazzato. Mi ha praticamente travolto per vedere chi è che mi sta chiamando.

«Posso?», chiedo il permesso di rispondere con un sopracciglio inarcato.
«Prego», si passa la mano tra i capelli scuri e torna a sedersi.
Io vado in bagno per avere un minimo di privacy e rispondo a bassa voce.
«Nonna»
«Tesoro, hai mal di gola?»
«No», bisbiglio. «Ma non posso parlare. Sono a lavoro», invento. Non potrei rispondere a tutte le sue eventuali domande. Non con Evan a meno di un metro dalla porta.
«Oh, scusami tanto. Volevo solo augurarti la buonanotte».

Il mio cuore si stringe davanti al suo tono dolce e confortante. Dopo la morte dei miei genitori lei è stata mamma e padre. Mi manca così tanto... Accidenti. Asciugo una lacrima in fretta e tiro su col naso: «Buonanotte, nonna. Ti amo tanto».
Riattacco senza sentire altre risposte. Approfitto di questo piccolo angolo di intimità per riprendere fiato. Non so perché, ma quando sono vicino a Evan vado in apnea.

Osservo le piastrelle bianche sulle pareti, il lavandino con rubinetti cromati, la toilette e la piccola doccia coperta da una tenda bianca. Un piccolo armadietto sopra il lavandino completa l'arredamento in modo pratico. È piccolo, ma accogliente.
Cammino verso la doccia e sono pronta a scansare la tenda per vederne l'interno, ma inciampo sul mio stesso abito e balzo in avanti. Per non cadere di faccia provo ad aggrapparmi alla prima cosa che vedo. Le mie mani afferrano istintivamente la tenda, ma la forza dell'impatto fa cadere il bastone telescopico che la regge. Una fitta veloce di dolore acuto mi pervade mentre il bastone mi colpisce la testa con un tonfo sordo. Perdo l'equilibrio e finisco sul pavimento.

«Althea?», Evan bussa alla porta, nel tono un velo di preoccupazione.
Io gemo e cerco di rialzarmi, sentendo un rivolo di sangue sgocciolare lungo il mio viso. Aia.
«Sto bene!», urlo, in preda alla vergogna. Ma perché diavolo mi è venuto in mente di controllare la doccia del signor Royden?
«Posso entrare?».

Sono a terra, sulle mattonelle fredde, avvolta come un burrito in una tenda da doccia e con un bastone sulle gambe.
Che imbarazzo.
«Althea», chiama ancora.
«Sì», sospiro.
Evan piomba nella stanza ed il suo sguardo preoccupato mi rintraccia subito sul pavimento. Voglio morire.

Mi schiocca un'occhiata accigliata e punta gli occhi sulla ferita che mi sono procurata alla testa. Un lampo di allarme gli balena sul volto. Anche se dubito sia realmente preoccupato per me. Forse ha paura che macchi il pavimento lucido.
Si accovaccia davanti a me e allunga la mano per afferrarmi il mento. Studia con attenzione la ferita, poi mi lascia andare per dedicarsi alla tenda che è diventata praticamente una trappola mortale. Mi libera le gambe e poi infila un braccio sotto la mia ascella per aiutarmi ad alzarmi. Vorrei allontanarmi dal suo petto caldo, ma mi ritrovo ad appoggiarmi a lui invece che scansarmi.

Mi fa male la testa. Parecchio. E mi sento stordita. Non so se dalla botta o dal profumo di Evan Royden. Forse entrambi.
«Ho mal di testa», borbotto mentre lui mi conduce fino alla cucina. Scansa il cartone delle pizze e strozzo un urlo quando mi solleva afferrandomi per i fianchi e mi fa sedere sul tavolo per studiare meglio il mio viso. Mi sfiora la fronte con le dita e mi sento riscaldare a poco a poco.

«Non è niente di grave», mi rassicura. «Ti gira la testa?», si allontana solo per prendere garze e disinfettante.
«No, signore».
Inizia a dedicarsi alla ferita e mi tocca lentamente, con cura, come se avesse paura di farmi male in qualche modo. Mi scordo perfino di avvertire dolore. Il suo corpo è così vicino al mio che l'unica cosa su cui riesco a concentrarmi è la sensazione elettrizzante che sta animando ogni parte di me. Quando le sue labbra si inarcano in un sorrisetto beffardo una vampa di calore  risale dallo stomaco alle guance. Si è accorto che lo stavo fissando.
Voglio sotterrarmi.

«Hai questa curiosa inclinazione all'auto-sabotaggio», si diverte a sottolineare. Non perde occasione di prendersi gioco di me.
«È colpa del vestito», mi difendo. «Si è impigliato sotto i tacchi»
«E ti ha catapultata contro la doccia», ribatte con un'occhiata sarcastica. Si sta divertendo. Nonostante l'espressione di scherno il tocco della sua mano continua ad essere gentile e rassicurante. Mi fa sentire protetta.

«È stata una serie di sfortunati eventi», mi stringo nelle spalle e la mia pancia si scioglie quando si lascia sfuggire una breve risata. Mio. Dio.
Mi ucciderà. Forse davvero ho una tendenza all'auto distruzione. Non me ne starei qui con lui a qualche centimetro dal corpo altrimenti.
Finisce la sua medicazione coprendo la ferita con un cerotto chirurgico. «Ecco fatto», sorride come si fa ad una bambina che si è appena sbucciata il ginocchio.
«Grazie».

Le sue dita si stringono sui miei fianchi e con agilità mi riporta sul pavimento. Non sembra intenzionato ad aumentare la distanza tra di noi e mi ritrovo incastrata tra lui e il tavolo.
«Scusi se ho distrutto la doccia», borbotto poi. «E l'intera missione».
Mio Dio, sono un danno vivente.
«Forse potrebbe scrivere una lettera molto convincente al comandante Barrett e rispedirmi a New York. In questo modo potrò finalmente sparire dalla sua vista e nessuno saboterà il suo lavoro», sparo una parola dietro l'altra. «Non lo biasimerei se scegliesse di farlo, signore»
«Non hai combinato niente di così grave da farmi desiderare di averti fuori dalla mia vista», dice serio. «Sei esattamente dove voglio che tu sia, agente Kelley».
E mi sembra di sciogliermi come ghiaccio al sole.

Buon pomeriggio!
Come state?
Ecco a voi il nuovo capitolo. È un capitolo di passaggio, ma spero che vi sia comunque piaciuto. Fatemi sapere cosa ne pensate e cosa vi aspettate dal prossimo 😈
E dell'ultima affermazione di Evan che mi dite? Sta cuocendo a fuoco lento? 😂
Vi aspetto nei commenti.
Un bacio grande
Sara

NON SONO UNA SPIAWhere stories live. Discover now