Benvenuta a Boston

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Posso dire di aver pianto? Perché sì, l'ho fatto. Ho versato lacrime come se non ci fosse un domani e continuo a farlo anche ora mentre sistemo i miei vestiti dentro il mio nuovo stupido armadio del mio nuovo stupido appartamento.
Sono arrivata a Boston da ben sei ore e ventisette minuti.  Non che io stia contando il tempo passato lontano da casa, ovvio. È solo che... Al diavolo, sì, lo sto facendo.

Non volevo essere qui. Non mi aspettavo minimamente di finire dall'oggi al domani al quarto piano di un rumoroso condominio nel quartiere di Brighton.
Piego una t-shirt e tiro su col naso, incapace di calmare i miei nervi. Meritavo una promozione e non un trasferimento!
Sono sempre stata un'agente modello: puntuale, coraggiosa, responsabile. Ho avuto qualche incidente di percorso, come tutti, ma ho sempre svolto il mio lavoro in modo eccellente.

Sto riesaminando mentalmente qualsiasi possibile errore commesso per meritarmi un simile trattamento quando percepisco dei rumori provenire dalla porta d'ingresso. Corrugo la fronte e mi immobilizzo. È una mia impressione o qualcuno sta cercando di entrare in casa?
È di certo una mia impressione.
Torno a piegare l'ennesima maglietta quando mi rendo conto che sì, cavolo, qualcuno sta davvero cercando di entrare.

Balzo in piedi e mi fiondo in direzione dell'ingresso. Cerco con lo sguardo qualcosa con cui difendermi, ma la pistola è troppo lontana e l'unico oggetto degno di nota a pochi passi da me è l'ombrello. Lo agguanto e mi preparo a colpire l'intruso con un colpo secco. Okay. Sono pronta. La porta si apre ed io sto quasi per colpirlo con uno scatto agile, ma lui è molto più veloce di me. E più forte. Troppo forte. Non riesco nemmeno a capire cosa accidenti stia succedendo. So solo che l'ombrello vola via come se fosse arrivata una folata di vento ed io mi ritrovo schiacciata contro il muro, le gambe e le braccia immobilizzate. A tenermi ferma sono le lunghe dita affusolate di un uomo alto almeno tre teste più di me. Mi osserva per intero e bene in viso, dall'alto in basso, con gli occhi più neri ed impetuosi sulla faccia della terra.

In questo istante mi pare di avere il nulla dentro la scatola cranica, un nodo allo stomaco ed il cuore in gola. Se vivere vuol dire lottare a mani nude contro questo gigante, sono finita. Morta
Mi guardo intorno nel disordine in cerca di una soluzione, ma niente pare fare al caso mio.
Ragiona. Ragiona. Ragiona.

Cerco di staccarmi dal suo corpo, ma la presa è troppo forte.
«Ti consiglio di non muoverti», mi ammonisce, la voce bassa e ruvida come mani che sfregano su una corteccia.
Il mix di paura e rabbia mi rende difficile stare ferma, dunque torno a muovermi con più grinta di prima. In risposta la presa si fa ancora più intensa ed il suo viso ancora più vicino al mio. Però non mi fa male. Nonostante mi stia immobilizzando contro il muro con una tecnica davvero ammirevole non sento nessun tipo di dolore sulla pelle, sotto le sue mani.  Forse è questo a convincermi a mantenere la posizione, senza fiatare. 

«Adesso ti lascio andare», mormora. «E ci concediamo le dovute presentazioni, agente Kelley».
Mi conosce? È uno stalker? Un nemico della giustizia?
Forse coglie la mia espressione confusa perché finalmente smette di toccarmi e muove un passo indietro, le mani libere in alto e ben in vista.
«Sei armato?», perlustro con attenzione la sua corporatura alta e massiccia, ostentando una finta sicurezza.

In tutta risposta, con una calma disarmante, infila una mano nella giacca ed estrae una grossa pistola nera. Merda. Fisso l'arma con uno sguardo scioccato, i battiti del cuore vanno ad una velocità innaturale. Calma.
Solleva l'arma per mostrarmela e poi estrae il caricatore, poggiandolo lentamente a terra. Anche la pistola finisce sul parquet, spinta lontano da noi. Le mani vuote dello sconosciuto tornano in alto ed io comincio a sentirmi più tranquilla, ma comunque sull'attenti. Mai abbassare la guardia.

«Alza la maglietta», ordino, assumendo un finto tono autoritario. La verità è che non mi è mai capitato di ritrovarmi totalmente da sola in una situazione a così alto rischio. Si tratta di un uomo armato, dannazione. Ed io sono totalmente priva di idee ed oggetti utili a difendermi. Potrei solo... Ecco, sì, potrei  allungare in fretta la mano e afferrare la piantana da terra in metallo e colpirlo dritto nello stomaco. Sì. Questa sarà la mia prossima mossa.

«Alza la maglietta», ripeto. «Voglio accertarmi dell'assenza di altre armi».
Lui scrolla la testa, mostrandomi una piccola smorfia divertita. Tiene lo sguardo fisso sui miei occhi fino a quando io non li abbasso sul tessuto che si appresta a sollevare. Decido che è arrivato il momento di agire quando inizio ad intravedere il ventre e degli addominali che sembrano fin troppo solidi. Afferro la lampada e spero con tutta me stessa di riuscire a stendere questo ammasso di muscoli in qualche modo.

Non voglio morire. Non voglio morire. Non voglio morire.
Chiudo gli occhi e mi sfugge un urlo mentre provo a colpirlo con tutta la forza che possiedo, ma il mio piano di difesa fallisce miseramente quando stringe la lampada con una sola mano e la blocca a mezz'aria, tra il mio corpo ed il suo. Okay, ora sono nel panico. Lo scruto per qualche istante, poi scelgo di passare all'azione. Mi lancio su di lui e provo ad atterrarlo, ma in risposta schiva i miei colpi come farebbe un fottuto ninja. Se proprio devo morire, voglio almeno che si sappia che mi sono difesa coraggiosamente.

Provo a sferrare un calcio, poi un pugno. Niente da fare.
Continuo nei miei tentativi fino a quando non scoppia a ridere e mi afferra i polsi, atterrandomi contro il pavimento con delicatezza, come se non volesse farmi male.
Con la guancia pressata sul parquet, rabbrividisco nel sentire il suo fiato sul collo: «Punto primo: mai attaccare una persona che si mostra condiscendente davanti alle tue strambe richieste. Un eventuale criminale non ci avrebbe pensato due volte a recuperare la pistola e a regalarti un buco sulla fronte», sussurra.

«Punto secondo: se pensavi di potermi atterrare con una stupida lampada o con il tuo solo mucchietto di ossa, complimenti, sei la persona più ottimista sulla faccia della terra», allenta la presa, ma continua a tenermi schiacciata sotto il suo petto. «E, punto terzo, le tue braccia sono fastidiosamente deboli. Ti aspetto domani mattina alle cinque in punto nella palestra della centrale», finalmente mi lascia libera di respirare e mi porge la mano per aiutarmi a rimettermi in piedi. Io lo guardo dal basso, sconvolta e ansimante. Cosa diavolo è appena successo? Vede che non accetto la sua offerta di aiuto ed incrocia le braccia al petto mentre mi rialzo.

«Prima che tu torni a saltellare come un grillo impazzito, mi presento: Evan Royden,  capo del dipartimento contro la criminalità organizzata di Boston. Il comandante Barret ha detto che saresti arrivata domani e ho pensato di portare qui dei cuscini prima del tuo arrivo», fa un cenno in direzione di un sacchetto abbandonato all'ingresso, fuori dalla porta. «E prima che tu possa mettere in dubbio la veridicità di ciò che dico, ecco qui le chiavi», le tira fuori dalla tasca dei jeans e le lascia tintinnare sotto il mio naso. «Questo appartamento è mio. Lo metto a disposizione per gli agenti che arrivano da fuori e non hanno un posto dove andare. Non pensavo di trovarti qui», chiarisce. «Avrei bussato»

«Io non...Non so cosa dire». Sono mortificata. Desolata. Umiliata. Imbarazzata. Non mi vengono in testa altri sinonimi per dire che vorrei scavarmi una fossa e sotterrarmi con le mie stesse mani. Studio le punte dei miei piedi e dondolo sul posto, incapace di dire o fare qualsiasi cosa. Il capo del dipartimento! Ho aggredito il capo del dipartimento!

Raccoglie la sua pistola e il caricatore, poi sistema perfino la lampada da terra rimettendola al proprio posto. Mi tremano le gambe quando mi passa accanto ed è così vicino da avvertire il profumo denso e dolce del suo bagnoschiuma.
«Chiedo scusa, signor Royden», lo dico anche se non lo penso. Era un intruso e la mia è stata legittima difesa. Punto.

Credo di non essere stata molto convincente perché mi risponde con un'occhiata e un ghigno beffardo: «Ci vediamo domani alle cinque. Sii puntuale, agente Kelley. Non mi piacciono i ritardatari». Sta per andarsene, ma poi torna indietro con un finto sorriso stampato sulla bocca: «Quasi dimenticavo: benvenuta a Boston».

Ciao a tutti!
Ecco a voi il primo vero e proprio capitolo di questa storia. 
E abbiamo conosciuto anche lui: Evan Royden.
Prime impressioni?
Che ne dite del loro primo e tranquillo incontro? 🫶
Sappiate che ho in mente tante cose 😈
Fatemi sapere cosa ne pensate.
Un bacio grande e grazie per tutto l'affetto. 

NON SONO UNA SPIADove le storie prendono vita. Scoprilo ora