In trappola

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"dopo questa sarai identica a Hailey Bieber, te lo assicuro" disse Giada posando solennemente la maschera sul mio viso. Era una di quelle stupidissime di Primark, e avevamo infornato dei biscotti.

Amanda era già seduta sul divano con la sua.

Mi girai e provai a guardarmi allo specchio. Ero letteralmente un alieno, con la faccia piena di grinze provocata dalla maschera idratante. Scoppiai a ridere.

"Io credevo saremmo state bene, ve lo giuro" disse Amanda, incredula alla sua immagine allo specchio. "Quelle su insta stanno sempre benissimo" cercò di convincersi.

Scattammo una foto e poi decidemmo di farci una tisana. Sembravamo delle nonnine attorno al tavolo della cucina. "Domani mi tocca andare a lezione" mi lamentai.

"Di' un po', ma non è che c'è qualcuno di carino? Che me lo presenti?" Fece Amanda.

"Guarda, appena ti trovo un principe azzurro te lo dico" lei scosse la testa. Dissi ad entrambe che mi conveniva tornare in camera e preparare zaino e vestiti per la mattina dopo.

Dopo la doccia, mi piastrai i capelli e finii per addormentarmi guardando netflix, e dimenticai totalmente la sveglia.

Il giorno dopo mi toccò correre. Era cruciale mi presentassi in ospedale per il laboratorio che dovevo fare, ed io ebbi solo una mezz'oretta prima dell'inizio della lezione. Il problema è che, una volta arrivata, cinque minuti prima dell'inizio, finii per ricordarmi di non conoscere per niente la strada. Dopo una serie di domande a funzionari più confusi di me, capii che era necessario prendere l'ascensore, e mi ci ritrovai dentro prima che si chiudessero le porte per pura fortuna.

Mi resi conto qualche istante dopo di non essere solo. Impegnato a fissarsi la guancia sporca di quella che sembrava marmellata allo specchio, c'era il tipo a cui avevo chiesto l'orario di inizio della lezione di chimica qualche giorno prima. Per niente sveglio, comunque. Non mi ricordavo molto dell'interazione, ma sembrava decisamente spaesato.

Appena si accorse fossi dietro di lui, si girò. Mi mancò la terra sotto i piedi, e letteralmente, perché l'ascensore fece un balzo. Dovete sapere che da quel giorno non prendo più ascensori se ho un'altra opzione. Ma torniamo a noi.

L'ascensore si fermò, e noi ci guardammo esterrefatti per qualche secondo prima di parlare. "S'è fermato?" fece lui, come se io ne potessi sapere di più.

"Lo chiedi a me? Sembra di sì." gli risposi.

Lo vidi alzare gli occhi verso il soffitto cercando di comprendere la situazione. "Sotto c'era rianimazione, sopra cosa c'è?" chiese, ancora convinto io ne potessi sapere qualcosa.

"Non lo so, io qui non ci sono mai stata" gli dissi. Ero scocciata. Sembrava volesse risposte da me quando chiaramente non ne avevo.

"Non so se bussare alla porta. Metti che lo faccio cadere. Non so quanti piani sopra siamo" si interrogò più fra sè e sè che con me, ma lo guardai terrorizzata. Era vero. C'era la possibilità fossimo sospesi, e non si evinceva dai tasti dei piani.

"Lo faccio. Busso piano. Magari ci sentono" si avvicinò alla porta, ma vidi il tasto d'allarme.

Lo scostai e premei quello, ma non produsse alcun suono. Lui scosse la testa, scocciato, e tentò di avvicinarsi alla porta di nuovo. Questa volta lo lasciai fare. Bussò una, due volte, tre. Eravamo bloccati. Non ci sentivano. Mi guardò. Si sedette sul pavimento. Fortunatamente le ascensori degli ospedali sono raramente piccolissime. Questa faceva parte della categoria. Se fosse stata minuscola, credo non sarei qui a raccontarvi l'episodio. Sarei morta prima per la claustrofobia.

Sorrise. E fece segno di sedermi vicino, sul pavimento. Stava ridendo. Noi eravamo bloccati in ascensore, soli, e lui rideva.

"Ma cosa ti ridi?" dissi, ero fumante dalla rabbia.

"Non possiamo farci niente. Stai calma." mi guardò, ma aveva aria di sfida. Non mi piaceva quest'atteggiamento. Era accondiscendente. Era passato dal chiedermi le cose come se sapessi tutto a trattarmi come una bambina nel giro di pochi minuti.

"Ma stai calmo tu, semmai" alla fine decisi di sedermi. Passammo tempo interminabile a fissarci e a fissare l'ascensore.

Lo odiavo, ma non sapevo stare zitta. Mai. "Come ti chiami?" chiesi. Mi legai i capelli, intanto. Quando ero stressata, un po' mi aiutava.

"Leonardo. Leo per gli amici e per quelli con cui rimango bloccato in ascensore" rispose lui, girandosi verso di me con le gambe che aveva incrociate a terra. Sorrise, di nuovo. Era quasi snervante.

Pensai fosse uno stupido a non chiedermi come mi chiamassi io. Glielo dissi ugualmente. "Io mi chiamo Diana"

"Come Lady D, quella della famiglia reale" osservò lui. Fece centro. A me lei piaceva tanto.

"Si, come lei" feci.

Leo si alzò, e tentò di alzarsi in punta di piedi per vedere dallo spiraglio alla fine del soffitto quale fosse la situazione al di sotto di noi. Un po' più calma di prima, per ragione a me ignote visto che la situazione era peggiorata, ebbi modo di osservarlo meglio. Lo detestavo già, ma non starò qui a negare e dire che lo avrei considerato brutto. Aveva le spalle larghe, avvolte nel maglione avorio a trecce, dei pantaloni beige, le sneakers bianche. Si girò verso di me, e gli guardai i capelli lunghi fino alle orecchie, castani con delle venature bionde o rossicce - non lo so - che gli scendevano sugli occhi. Forse era stato il mare. Era un po' abbronzato, pensai. Ma come faceva ad andarci in autunno?

Piegò le ginocchia, arrivando alla mia altezza. Mi ricordo solo gli occhi nocciola e una cosa vaga che mi disse, tipo "non si vede niente".

Finì per sedersi poco lontano da me.

"Di dove sei?" tentai di fare conversazione. Lo vidi alzare gli occhi al cielo. "Non hai idea di quante volte abbia risposto a questa domanda. Che poi si sente" e mi fissò, di nuovo. E' vero. Un po' si sentiva.

"Sei laziale?" feci io. E lui annuì.

"E perchè stai qua?" gli chiesi.

"Perché sto in esilio, dici? Non lo so. Non l'ho deciso io. Sono entrato qua e basta" mi rincuorò sapere di non essere l'unica lontana da casa involontariamente. Era la cosa che odiavo di più, dall'inizio dell'università.

"Anche per me è così" lo informai, e lui mi guardò, e rise.

"Si, si vede"

"Cosa si vede?"

"Che non sei di qui, dico" disse, squadrandomi. Mi sentii minuscola. Che voleva dire? Credo che lo guardai malissimo. Improvvisamente io e i miei jeans grigi sembravamo inadeguati.

Lui si appoggiò alla parete. Forse aveva capito di aver toccato un tasto dolente. Aggrottò le sopracciglia e scosse la testa.

"Non intendevo in quel senso" disse. Quale senso?

Poco importò. Sentimmo delle voci da sopra chiamarci. Leo rise. Un tecnico dell'ascensore riuscì a sbloccarlo e tirarci su. Poco dopo finimmo per sgattaiolare in laboratorio e infilare il camice.

Quella sera, ci ripensai e decisi di seguirlo su instagram. Quando amanda mi chiese se le avessi trovato un principe, continuai a dirle di no.

Bella come RomaWhere stories live. Discover now