10 - La notte delle streghe

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Il resto della settimana trascorse senza intoppi.

Quando giovedì sera Daniel rincasò, lasciando cadere la giacca tra le mani dell'eternamente preparato Louis, si stiracchiò prima di sedersi sulla sua poltrona e si rese conto con un sorriso di essere stanco.

Non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva sentito il corpo dolere dalla stanchezza. Conosceva un tipo di fiacchezza psicologica che sarebbe stato difficile raccontare a qualcuno fuori da quella casa, ma la spossatezza fisica era una cosa così umana... era difficile pensare che se ne potesse sentire la mancanza.

Bevve la sua tazza di tè nero in silenzio, scrollando Instagram, come sempre, e si fermò su una foto postata da Maira, che la ritraeva mentre beffarda faceva una linguaccia alla fotocamera, all'interno di un negozio che vendeva costumi di Halloween. Sullo sfondo si vedeva la schiena di Katherine Bennett, i lunghi capelli scuri che ne accompagnavano la figura stoica, e una piccola parte del profilo: sembrava concentrata sul vestito che teneva in mano, e che dall'inquadratura Daniel non riusciva a distinguere. Nella didascalia, Maira aveva scritto: "Shopping stregonesco con amiche immusonite".

Dan sorrise, strofinandosi mento e guance con le dita della mano libera. La barba gli si era fatta incolta, avrebbe dovuto radersi quella sera, ma fu un pensiero che occupò la sua mente solo marginalmente.

-Louis?-

-Sì?-

-Mia sorella è in casa?-

-No, sir. Miss Beatriz è uscita a cena con vostro padre.-

Lo disse come se volesse intendere qualcos'altro, e Dan ricordò improvvisamente. -Oh, dannazione. È in città.-

-È rientrato questo pomeriggio. È apparso piuttosto confuso per via della vostra assenza. Se posso permettermi un consiglio, Daniel...- si sporse su di lui per versargli un'altra tazza di tè, ma così facendo coprì anche le proprie parole -...non gli lascerei intendere quanta soddisfazione provate per il vostro nuovo... impiego.-

Dan non ebbe bisogno di chiedere niente. Sbuffò, posando la tazza sul basso tavolino tra le due poltrone, e si alzò, affondando le mani nelle tasche e avvicinandosi al fuoco. Si lasciò scaldare dalle fiamme alte pur non provando affatto freddo, e fece scorrere gli occhi sulle foto accuratamente disposte sulla mensola di mattoni.

Branson Cooper non era stato un "buon" padre nel senso più affettivo del termine, ma non si poteva dire che non avesse fatto del suo meglio, a modo suo. Era un uomo potente, e aveva fatto del potere la sua più grande virtù, il perno centrale della sua esistenza. La sua famiglia, come i suoi casinò, come i suoi hotel, come le sue donne, doveva essere un accessorio: uno strumento per rendere quel potere ancora più grande, ancora più forte.

Dal suo primo matrimonio era nato Richard. Il primogenito di casa Cooper aveva tutto ciò che Branson riteneva meritevole di apprezzamento in un figlio: era spavaldo, arrogante, deciso e sicuro di sé. Una personalità dominante, anche se questa definizione faceva sorridere amaramente Daniel.

Dopo Richard, durante un'avventura in Argentina, era nata Beatriz. Bella, selvaggia, intelligente e disinibita, Bea era un accessorio incantevole da sfoggiare alle sue soirée e Branson ne era immensamente orgoglioso. Non bisognava farsi un'idea sbagliata: Beatriz sapeva essere davvero letale. Ma la sua fatale sensualità era un'arma carica che quella famiglia vezzeggiava. Dan sapeva che Bea era molto più di questo: era protettiva, amorevole, infantile per certi versi. Solo che questo lato di lei, semplicemente, era precluso ai più.

Daniel era nato diversi anni dopo. Ed era stato, per stessa ammissione di suo padre, il suo "unico e grave errore". La madre di Dan era diversa dalle donne con cui Branson era solito intrattenersi: per i primi anni della sua vita, lo aveva cresciuto lei. Di quel tempo Dan ricordava solo il profumo di cannella e borotalco, il tintinnio del suo carillon, una voce dolce che cantava la ninna nanna. Non aveva altri ricordi tangibili di lei e non era rimasto niente: non una foto, non una lettera. Non sapeva nemmeno come fosse morta: sapeva solo che era accaduto e che suo padre lo aveva ripreso con sé.

Branson non lo trattava male, questo no, ma non lo riteneva nemmeno all'altezza degli altri suoi figli. Gli aveva detto più volte che aveva grandi speranze per lui, ma che proprio per questo si aspettava le peggiori delusioni.

Nel corso del tempo, il comportamento di Daniel era sembrato confermare quell'ultima ipotesi. Per un periodo durante la sua lunghissima adolescenza aveva cercato di compiacere il padre, fallendo di volta in volta in modo sempre più doloroso; crescendo aveva imparato a capire che finché avesse cercato di far felice Branson non sarebbe mai stato sereno lui stesso. Così avevano trovato una sorta di equilibrio, avevano siglato un compromesso: il minore dei suoi figli teneva la sua vita privata fuori dalla sfera familiare e, in cambio, si comportava da Cooper irreprensibile agli eventi mondani a cui partecipava.

Quando vi partecipava, quantomeno.

Dan finì in due sorsate il tè e si affrettò verso la sua camera da letto. Poteva essere assolutamente certo di due cose: quando Branson sarebbe comparso sarebbe stato decisamente seccato sia per la sua assenza di quella sera sia per la sua ingerenza negli affari di Richard, che avevano portato al suo attuale lavoro all'emporio dei Bennett.

***

Beatriz non amava sentirsi definire "il collante" di quella famiglia. Non lo era: più semplicemente, vuoi perché era la figlia di mezzo vuoi per carattere, riusciva ad andare d'accordo con entrambi i suoi fratelli e a farsi ascoltare, quando più quando meno, da suo padre. 

La serata al Night Palace era stata straordinariamente noiosa. Dopo cena aveva dovuto trattenersi svariate volte dallo sbadigliare e a nulla erano valsi i sorrisi che la cameriera le aveva rivolto ogni volta che era riuscita a incrociare il suo sguardo. 

Al ritorno, comodamente adagiata in limousine, aveva controllato sul cellulare la posizione dello smartphone di Daniel e rientrata a casa era scivolata nella sua stanza, ticchettando alla sua porta con le unghie laccate di nero, prima ancora di andare a struccarsi. 

-Ciao sovversivo. Dormivi?-

Daniel non dormiva. Era seduto sul letto, la schiena poggiata alla testata di legno e un libro sulle gambe. Lo chiuse, tenendo il segno con due dita, e sorrise a sua sorella. -No. Come è andata la serata?-

-Uff. Noiosa e priva di stimoli.- Bea si sedette sul letto e accavallò le gambe, sfilandogli il libro dalle mani (e facendogli così perdere il segno) e osservandone la copertina laccata. -Nostro padre ha chiesto di te. Svariate volte.-

-Avevo completamente dimenticato la cena. Mi dispiace.-

Lei fece un segno non curante con la mano. -Avresti passato la serata a giustificarti per le tue pessime decisioni, non scusarti. Ma non potrai evitarlo in eterno. Louis ha detto che mi hai cercata.-

Dan raddrizzò la schiena e annuì. -È così. Domani sera a Templewood organizzano una festa in maschera. Per Halloween.- 

Quella parola cadde tra loro e sembrò risucchiare parte dell'ossigeno presente nella stanza. Bea sorrise. -Vuoi festeggiare Samhain?-

-No.- Sorrise colpevole. -Non lo so.-

Bea accarezzò la copertina del libro, arricciando le labbra pensierosa. -Vuoi andarci o no?-

-Ci sto pensando. Non so se sia il caso, tutto qui.-

-Dan.- Bea inarcò un sopracciglio e gli pizzicò il naso. -È una fortuna che io non sia la ragazza che vorresti invitare, perché a questo punto mi sarei già stufata di tutti i tuoi tentennamenti. Se ci vuoi andare, ci andiamo. Non vedo perché non dovremmo. Tu chiaramente ne hai voglia e io ho proprio bisogno di conoscere persone nuove.

E poi, chi più di noi ha diritto di festeggiare Halloween?- 

Dan storse il naso, amaro. -Già. Non c'è niente di meglio che una famiglia demoniaca per rendere indimenticabile la notte delle streghe.-

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