Capitolo VIII - Un re insaziabile

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Alastor

La sabbia mi entra nelle narici e nella bocca che cerca disperatamente di trovare ossigeno; le mani sono affondate in essa, graffia e si conficca nella pelle con i suoi piccolissimi granelli.

Il sangue cola lungo la faccia, le braccia, l'addome e le gambe.

Il mio vestito nero e dai ricami dorati è ormai stato fatto a brandelli, rendendolo uno straccio.

Le ginocchia mi fanno male per lo sfregamento continuo contro la sabbia e il sapore metallico che ho in bocca non aiuta per niente.

A pochi passi da me, Leone Bianco non ha riportato nessun tipo di ferita e la sua enorme ascia è ricoperta di sangue, del mio.

Un sorriso increspa le sue labbra, compiaciuto di tutto quel liquido scarlatto e di me in ginocchio davanti a lui.

Come se non bastasse, alcuni segugi infernali, stanno puntando su di me.

Mostrano i loro denti con ferocia, gli occhi neri accecati dall'odio e dalla brama di strappare le mie carni, cosa che hanno già fatto.

A causa loro, il mio braccio sinistro continua a sanguinare e un pezzo di carne è oramai quasi del tutto staccato, probabilmente, se affondassi un dito dentro la ferita, sentirei l'osso.

Il sangue continua a gocciolare ininterrottamente, la sabbia a vorticare in questo luogo inospitale e il tempo, per lo meno, mi sembra che stia diventando sempre più lento, sempre più soffocante.

Il dolore continua a percorrere il mio corpo e fatica a rigenerarsi a causa del sigillo che mi hanno marchiato i miei due fratelli e la distruzione del legame che avevo con Kira.

Sorrido amaramente e penso che, a questo punto, i miei doni sarebbero potuti servire a qualcosa. Avrei raso al suolo questo posto e avrei staccato a quel vecchio la testa a morsi.

Invece sono qui, in ginocchio, davanti a questo essere alto più di tre metri.

«Tutto qui quello che sai fare, mi aspettavo di meglio» dice Leone Bianco, appoggiando la stecca della ascia all'altezza della spalla, facendo finire la lama alle sue spalle, e una delle sue mani libere la tiene all'altezza dell'impugnatura corretta.

Invece di rispondere, decido di alzarmi e, con tanta fatica, riesco nel mio intento.

Le gambe mi tremano e ogni passo che faccio, mi sembra di avere conficcati degli aghi all'altezza delle ginocchia e dei polpacci.

I cani iniziano a ringhiare davanti al mio gesto, ma non ci faccio tanto caso, mi inumidisco le labbra e finalmente rispondo alla sua provocazione: «Come vedi sono ancora in piedi».

Il suo sorriso si allarga.

«Ragazzo, è evidente che non hai speranze con me. Arrenditi e fatti divorare come è giusto che sia».

A quell'affermazione, la mia mascella, in automatico, si indurisce e socchiudo gli occhi per guardarlo meglio attraverso quella nube di sabbia che lo protegge.

Non è la prima volta che finisco in un guaio del genere, ma forse sono fuori allenamento da diversi secoli e devo sgranchirmi ancora un po' .

Lancio un'occhiata all'ingresso, sopra le scalinate, e mi rendo conto che Miller non è più nel posto in cui l'ho lasciato.

Se n'è andato...

Dovevo immaginarmelo, in fin dei conti è sempre stato uno privo di palle e durante gli scontri andava sempre a nascondersi, quando eravamo più piccoli.

Concentro la mia attenzione sul mio avversario e osservo la sua lunga barba che arriva fino all'altezza delle ginocchia.

Se riuscissi ad afferrarla, forse potrei atterrarlo.

Sacrifice - Lethal BondWhere stories live. Discover now