18

4 1 0
                                    

<<Qualcuno ti ha fatto del male? Qualcuno ti ha detto qualcosa?>>

Con queste parole Beatrice irrompeva nella mia serenità, quando provavo a raccontare qualsiasi cosa mi riguardasse. Ogni discorso cadeva presto nella solita voragine emotiva, togliendomi il gusto di esprimermi e lasciandomi l'arduo compito di rispondere ad interrogatori sempre più incalzanti e nevrotici. Dovevo ogni giorno inventarmi qualcosa che non innescasse fuochi d'artificio di disperazione, inestinguibili anche con un'autocisterna piena di rassicurazioni. Stella e Claudia per miracolo erano nomi consentiti, ma bisognava evitare di nutrire la sua mente con nuove persone, fatti e luoghi, perché anche il dettaglio più innocente poteva scatenare in lei i più svariati collegamenti con situazioni di rischio e pericolo. Sostanzialmente avevo una certa libertà, ma era delicatissima la fase dell'uscita di casa, quando conveniva comunicare, nella maniera più neutra e incolore possibile, meta e orario del rientro, meglio se utilizzando sempre la stessa scusa.

Non era facile per una ragazzina di sedici anni rispettare questi rigidi confini, spesso non mi riusciva, con conseguenze disastrose. Del resto, il desiderio di confronto e approvazione da parte dei genitori è un bisogno di cui non ci si libera mai, nemmeno a quarant'anni ed io non ho mai smesso di tentare di avere una conversazione normale con mia madre. Ricordo che, ancora qualche anno fa, solo per il gusto di raccontarle qualcosa ed "essere ascoltata" per pochi minuti, tentai l'arte dell'iperbole:

<<Mamma, non ci crederai, è successa una cosa assurda! Mentre un signore parcheggiava l'auto davanti alla stazione, dal finestrino è saltata fuori un'oca, e, pensa, aveva al collo un fiocco rosa. A quel punto il signore ha abbandonato l'auto e si è messo a correrle dietro, gridando Camilla, Camilla, amore, fermati!>>

Mi sentivo una stupida, ma ho provato un sottile e profondo piacere nel vedere i tratti del suo volto aprirsi dalla curiosità e un leggero sorriso schiuderle le labbra.

Dopo essersi fatta ripetere la storia alcune volte, ha fissato i suoi occhi limpidi nei miei e ha detto: <<Sei come tuo padre: dici un mucchio di menzogne.>>

Fugace attimo di soddisfazione, pessimo finale, ma ne era comunque valsa la pena!

Tornando a quegli anni, le paure di mia madre si erano moltiplicate, ma, tutto sommato, nel "labirinto" che si era costruita, si può dire che le cose restassero in "equilibrio", se poniamo la parola, appunto, tra virgolette. Il mondo fuori era pericoloso, meglio muoversi e accovacciarsi nei soliti cunicoli, lì si poteva sopravvivere, anche senza vedere mai la luce del sole. Restavamo prigionieri anche noi del suo labirinto, ne conoscevamo i corridoi da percorrere tanto quanto i passaggi interdetti. Con il favore del buio saremmo volentieri fuggiti via, lontano, a respirare l'aria della vita per un'ora buona.

Non più bambina, ora, avevo una visione più chiara dei potenti mezzi dei suoi diversi Nemici. Mia madre riteneva che questi, con la complicità di alcuni personaggi televisivi, potessero spiare la nostra vita attraverso il piccolo e innocuo televisore al centro del soggiorno. Questo aggeggio era stato gradualmente esiliato dal suo sguardo, non ci ha mai impedito di vederlo, ma controllava spesso che il nostro comportamento, per esempio l'abbigliamento con cui sedevamo davanti alla tv, fosse consono a quel grande occhio scuro.

Riteneva inoltre che la casa fosse disseminata di "sensori", potenti cimici attraverso le quali le nostre conversazioni venivano costantemente registrate. I Nemici erano in ascolto, in attesa di captare nei discorsi gli imminenti spostamenti per trasformarci in vulnerabili bersagli mobili. In caso si nominassero orari e luoghi bisognava abbassare la voce o, peggio, parlare in codice. Nessuna evidenza, del resto, avrebbe potuto scalfire le sue granitiche convinzioni. Nonostante ogni giorno facessimo ritorno a casa incolumi, senza alcun segno di colluttazione, il "pericolo" per lei restava vero e indiscutibile. Nella paranoia non c'è niente di logico, come ormai avrai compreso.

La personificazione più frequente dei Nemici, o, forse, loro affiliati, erano i medici. Fatta eccezione per i dentisti, professionisti delle cui cure mia madre ha spesso necessitato, chiunque indossasse un camice bianco rappresentava una persona pericolosa, potenzialmente distruttiva, che, a dispetto dell'apparenza placida o gentile, tramava a suo danno. Recarsi presso uno studio medico era per lei estremamente destabilizzante e ne avrebbe fatto seguito l'insorgere di eterne fisime. L'incontro con i camici accadeva esclusivamente sotto stringente necessità e a seguito di lunga e costante opera di convincimento da parte nostra. Me ne resi conto anni dopo quando cominciai ad occuparmi direttamente della sua salute.

Anche i preti talvolta le suscitavano lo stesso terrore. Ce n'erano alcuni investiti di connotati divini e salvifici, a cui si sarebbe affidata ciecamente, altri rappresentavano al contrario una manifestazione del nemico ed una loro visita avrebbe potuto innescare imprevedibili conseguenze. Penso rifiutasse d'istinto le persone che parevano accorgersi dell'esatta natura dei suoi problemi e che tentavano di aiutarla. Fu così, ad esempio, che don Beppe, il quale venne spesso a trovarci nel periodo a seguire il suo ricovero, entrò con poche mosse nel grande libro degli "innominabili".

Continuava inoltre a ritenersi destinata alla dannazione eterna per un peccato che, posso testimoniarlo, non ha mai commesso. Per anni ha cercato con costanza una confessione che fosse risolutoria, inutilmente, perché, sia pure un insignificante dettaglio avvenuto in quei frangenti, suscitava in lei nuovi timori di cimici nascoste nel confessionale, impedendole di esporre il suo "peccato più grave". Quando invece riusciva a confessarsi, trascorsi pochi giorni, la stessa fisima di immeritato perdono ritornava prepotente e il "pellegrinaggio" ricominciava. Sino a qualche anno fa, numerose volte, per qualche nuvola di tranquillità, zio Dario e io l'abbiamo accompagnata in diversi santuari fuori mano, ogni volta per l'ennesimo tentativo di assoluzione.

Come mi comportavo, invece, a sedici, diciotto e persino a trent'anni? Affrontarla di petto? Dirle che tutte quelle sue teorie erano assurdità, idee insensate e paranoiche?

Non immagini quante volte ci abbiamo provato invano. Non serviva, anzi i toni emotivi salivano di molto, scatenandosi in lei il panico estremo per non poterci proteggere dalla nostra ingenuità e sprovvedutezza. Diventavo Davide contro Golia, in un duello impari in cui il giovinetto restava schiacciato sotto pesanti calzari, in un tornado emotivo che l'avrebbe lasciato senza forze, senza energia. Meglio fingere piuttosto di non avere più tempo e di dover scappare lasciandola lì nella sua angoscia, ma contenuta e sostenibile, nella nicchia più comoda del suo labirinto.

Ora che lei sta meglio, dopo oltre quarant'anni di malattia, compaiono solo talvolta dei vaghi pensieri paranoici, declinati per abitudine e con minore convinzione e quasi mi posso permettere uno sgarro.

Qualche mese fa, all'ennesima raccomandazione per la mia incolumità, prima di varcare la porta mi girai e le dissi:

<<Ma ti pare che se avessero voluto uccidermi in quarant'anni non l'avrebbero fatto?>>

Mi guardò con candore: <<Forse l'hanno fatto a tuo padre e a...>> e su quel nome si zittì.

A quel punto come darle torto, non faceva una grinza.

Il "forse" era un tributo al suo migliore stato mentale.

Per un attimo, il primo di tutta la mia vita, mi sembrò che fosse lei dalla parte della ragione: allora i Nemici non erano nient'altro che la malattia, la morte improvvisa, l'ignoto futuro e il fato, che ci inseguono per farci cadere.

E forse, Mattia, in torto siamo noi, io e tuo padre, pazzi ubriachi di favole. 

Hai finito le parti pubblicate.

⏰ Ultimo aggiornamento: Sep 08, 2023 ⏰

Aggiungi questa storia alla tua Biblioteca per ricevere una notifica quando verrà pubblicata la prossima parte!

NON GUARDARE I PESCECANIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora