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No, Mattia, non preoccuparti. Non trattenere il fiato, sospeso nell'incubo che anche tua madre possa essere una persona fragile o peggio prigioniera di una condizione dolorosa. Dall'alto dei miei anni posso assicurarti che quello fu un episodio rimasto isolato alla mia preadolescenza.

La mente è una spugna che tutto assorbe, mentre galleggia tra i flutti e le correnti.

L'essere umano, dal primo momento in cui mette piede nel mondo, ha bisogno di equilibrio.

La mente deve trovare un accordo con il cuore, il cuore deve trovarlo con l'istinto, la fatica con il riposo, la solitudine con la compagnia, i sogni con la realtà. È lo stato di equilibrio il più possibile duraturo che può mantenere sana la nostra fragile psiche e, quando l'equilibrio viene a mancare per lungo tempo, c'è una sola e unica ricetta: conoscere se stessi.

Conoscere la propria realtà interiore, i propri bisogni, i nostri pregi più grandi e le nostre debolezze. L'equilibrio è il frutto delle scelte che facciamo: possiamo affrontare qualsiasi cosa purché sappiamo porci in una posizione "sostenibile" per noi.

Ho imparato il dono dell'introspezione nel mio processo di differenziazione da mia madre, forse Beatrice al contrario non ha potuto fare lo stesso con la sua. I primi anni sono un momento così breve e delicato in cui la spugna non perde una sola goccia d'acqua, pulita o sporca che sia, e tutto ciò che saremo già inizia a delinearsi, nel bene e nel male. Io, femminuccia, guardavo a mio padre come modello di personalità, forse tua nonna non ne ebbe il tempo, il padre fu presto al fronte, in guerra, o forse lei fu più esposta di me alle avversità. Mi ha raccontato spesso quello che a lei stessa fu riferito: per mostrarla ai parenti in visita, mia nonna prese mia madre neonata per il collo, sollevandola come fosse un sacchetto vuoto.

<<Ecco, questa è mia figlia!>> rispondeva con astio a chi voleva conoscere la bambina. Chissà, forse non voleva figli o temeva che una femmina sarebbe stata costretta, com'era stato per lei, a fare scelte imposte dall'ambiente e dalla parentela.

Ho calpestato il mio cuore per tutta la vita era la frase ricorrente di mia nonna, che, a quanto pare, quando mia madre aveva circa diciassette anni morì suicida. L'equilibrio è il dono più prezioso che un genitore possa riservare a un figlio, probabilmente mia madre questo dono non lo ricevette. A cinque anni le chiedevano, convinti di renderla forte e autonoma, di attraversare mezza città da sola per portare a termine commissioni. Da quello che racconta del suo ambiente d'origine credo abbia subito un trauma, accentuato da un clima di scientifica "diseducazione sentimentale". Emozioni e sentimenti non contavano, solo un gretto senso pratico e gli aspetti economici erano moventi di ogni decisione.

Quando negli anni cinquanta mia madre era fidanzata con il figlio di nobili decaduti i quali si erano reinventati mettendo su una fabbrica di elettrodomestici, sua zia, che faceva le veci della madre, mise quel bel ragazzo alla porta, intimandogli di non tornare più. Riteneva che uno spazzino avesse un migliore futuro economico di un giovane imprenditore e ciò bastava ad imporre una così grande rinuncia a sua nipote.

A noi non è andata così, se mia madre non fosse stata malata, sarebbe stata un passo avanti, per talento e mentalità, rispetto alle mamme dei nostri compagni. Traspare anche adesso, ora che è più lucida e ancorata alla realtà, una profondità di pensiero, una delicatezza d'animo, cui mai ha potuto dar luogo nella sua vita. Il nostro problema era la sua malattia e il suo "mantra" potente e poi la depressione, l'ansia e l'angoscia che la avviluppavano con presa rigida e ferma.

All'età di undici anni tutto quel peso mi schiacciò, troppa tensione si era accumulata e troppa ne dovevo elaborare da sola. La mia bella spugna naturale, che aveva vagato per anni in balia delle onde, stava assorbendo più acqua sporca di quanta riuscisse a rigettarne, tant'è che si arenò in una grigia spiaggia solitaria.

Mi ritrovai costantemente persa in strani pensieri, dimentica del mondo che mi circondava e delle mere incombenze personali. La mia mente entrò in un lavorio continuo e incomprensibile. Il flusso dei pensieri si interruppe e persino le espressioni aritmetiche e le formule geometriche, piccoli rompicapi che padroneggiavo da sempre con divertimento, divennero serie di numeri oscuri. Passavo il mio tempo persa in una ingarbugliata rete mentale, prigioniera del cruccio di poter malauguratamente causare del male a qualcuno. Bastava, per esempio, che in un giorno di forte vento una busta di plastica volasse accanto alla nostra auto in corsa per farmi perdere nel terrore che essa potesse provocare un incidente. Immaginavo pericoli ovunque e me ne sentivo la diretta responsabile.

Naturalmente c'era qualcosa di vero in tutto questo. Chi non ha mai sentito il dovere di scostare dal marciapiede il potenziale pericolo di una buccia di banana? Tutti siamo in qualche misura responsabili del mondo che ci circonda, ma la mia fantasia girava come un mulino a vento in un giorno di bora, non aveva pause e non ammetteva rallentamenti, rimproverandomi di non avere il coraggio di risolvere quelle situazioni.

Era lo stress a lungo subito la causa di tutto? Certo, anche se, con il senno di poi, individuo alla base anche qualcosa di più profondo: mi sentivo responsabile per l'aiuto che avrei voluto dare a mia madre e che non sapevo dare. Avrei voluto guarirla, far sì che il suo dolore passasse, convincerla che si sbagliava su tutto, che nessuno voleva farci del male, che non esistevano i Nemici. Non ci riuscivo. Non sapevo che fare e il senso di colpa mi schiacciava.

Ad ogni modo anche durante quei mesi continuai a guardarmi dentro, una parte di me mi ripeteva che stavo assumendo comportamenti non normali e che avrei dovuto cercare di non impazzire. Un giorno quella stessa voce mi disse che per ogni cosa avevo come tutti una responsabilità limitata e che ero piccola dinanzi a cose per cui non potevo fare nulla di più. Era la verità e pian piano lo capii, mi ci rassegnai per sfinimento. Lentamente, come ne era uscito, il senso di colpa se ne tornò in un angolo buio della mia mente, la ragione e la stanchezza l'esiliarono, infine.

Devo a quel periodo della mia vita l'aver conosciuto il limite maggiore della mia personalità, quello da non stuzzicare: l'ipersensibilità. Qualsiasi pregio si trasforma in un difetto quando diviene eccessivo o, più precisamente, valica i confini della praticabilità, scontrandosi con una visione non obiettiva della realtà. Imparai ad accettare di essere solo una bambina e che mi conveniva ascoltare le mie intenzioni migliori solo se e quando avessi avuto i mezzi necessari per dar loro concretezza. Sino ad allora avrei custodito i miei pensieri gelosamente in un cassetto, nascosti in una preziosa scatola sarebbero stati al sicuro, nessuno li avrebbe danneggiati o messi in discussione.

Fuori, nella realtà, mio fratello maggiore, Maurizio, assunse un'altra posizione. Le cose migliori, le cose che aveva e che non poteva vivere a pieno per via del nostro dolore, le mise contro il muro ed "impugnò il fucile". Sparava con mira precisa e scrupolosa: il talento, la scuola, la speranza. Talvolta voltava il fucile e lo puntava contro il mio "cassetto", con convinzione. Forse aveva paura non vedessi bene la realtà che ci circondava, mi voleva bene e, a suo modo, voleva mettermi in guardia da ciò che stava accadendo.

Io tornai a perdermi nel limbo della scuola media, nell'ovatta del non essere ancora artefice del mio destino. Tra quei comodi banchi continuai ad essere la più brutta e la meno alla moda della classe, ma passò quella fase in cui i miei compagni, approfittando delle mie debolezze, si dilettavano nel "lancio del frontino" da un lato all'altro dell'aula come fosse un frisbee.

Tornai ad essere la solita timida ragazzina e nello stesso modo, come un pacco, passai alla scuola superiore.


NON GUARDARE I PESCECANIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora