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Quando frequentavo la quinta elementare, non avevo ancora dieci anni, le condizioni di mia madre si aggravarono. Lentamente, nel corso dei mesi, dimagrì in modo inesorabile, sarebbe arrivata a pesare solo quaranta chili, in contrasto con la statura che la caratterizzava. Preparava i pasti per noi alla meno peggio, ma lei non si nutriva, divenendo sempre più debole e sottile.

Da tempo, ormai, alcuni personaggi televisivi si erano trasformati in potenti "bruti" alleati della mafia e della massoneria e, dall'apparecchio, erano in grado di spiare in casa nostra. Con l'aiuto di tecnologici sensori ascoltavano tutto quanto dicessimo e grazie a quelle informazioni avrebbero potuto far del male a lei come ai suoi figli. Non delirava ancora, queste con altre furono conoscenze che acquisii più in là quando i deliri divennero strutturali del suo vivere e più manifesti. In quel periodo era particolarmente pacata e silenziosa. Era convinta di avere commesso un impronunciabile peccato, gravissimo e imperdonabile, per il quale sarebbe andata all'inferno e che aveva scatenato la maledizione sui suoi poveri figli. Credeva di essere condannata alla perdizione eterna e lo credeva con una tale intensità da non vedere alcuna via di uscita.

Sulla spinta di queste angosciose emozioni ricordo che durante una visita in chiesa, all'improvviso, si buttò per terra in mezzo al corridoio della navata centrale. Non si era messa in ginocchio, ma completamente distesa come volesse affrontare a nuoto lo spazio che la separava dall'altare. Voleva chiedere perdono e lo fece accanto ad una impettita e impellicciata signora, la quale rimase a lungo a guardarla con sgomento e una punta di disprezzo. Io rimasi immobile (provando una pena acuminata nel cuore), mio padre fece altrettanto. Nonno Enrico intuì che contraddire mia madre mentre era in quello stato avrebbe potuto scatenare reazioni ancor più disdicevoli e aspettò che lei stessa si rialzasse, evitando di sottolineare l'accaduto dinanzi alle poche persone presenti. Dunque la prese sotto braccio ed uscimmo.

Avrei voluto sprofondare, lì nel pavimento di mosaico di tessere rosa che decorava la chiesa o sparire piccola piccola dentro i fuochi tremuli delle candele, del resto, la vergogna era da tempo un inquilino della nostra mente.

Inutile dire che il peccato che mia madre riteneva di aver commesso era del tutto inconsistente, milioni di tentativi di convincerla di questa realtà non sono mai approdati a niente nel corso degli anni. Io sono l'unica della famiglia cui abbia confidato in gran segreto la sua presunta mancanza e, davvero, i conti non tornano. Comunque, in quel periodo, l'immotivato senso di colpa prese il totale controllo scatenando in lei un esaurimento nervoso in piena regola. Tornavamo a casa affamati e in tavola c'era un piatto di pasta appiccicaticcia, condita con un sugo di pomodoro tal quale e mal cotto. Papà ordinava dei piatti pronti quando temeva che a pranzo non avremmo mangiato e appariva tranquillo, cercando di mantenere un clima il più possibile sereno.

Presto le ossessioni presero il sopravvento. Ricordo un pomeriggio in cui zio Dario ed io, rientrati a casa dalle nostre scorribande, le raccontammo, con la gioia e il sorriso dei bambini, di aver visto un bellissimo gatto... nero.

Mamma non la prese bene, non so quale significato attribuì all'evento, ma ci obbligò ad inginocchiarci e a chiedere perdono per aver guardato il micio negli occhi. Nessuno di noi due si mortificò davvero, capimmo bene che stava sragionando, ma ci turbò nelle viscere, mentre le gambe si piegavano sul pavimento freddo, il sentire fragile del cuore impazzito di nostra madre e quell'entusiasmo abortito per una cosa bella e innocente. Non ricordo di aver mai potuto parlare o raccontare liberamente alcunché. Strano e difficile a dirsi, strano quanto tristemente vero!

Poco prima dei miei esami delle elementari Beatrice fu ricoverata in un reparto psichiatrico. Con l'aiuto dei suoi familiari mio padre la condusse per ospedali alla ricerca di un posto in reparto. Se non fosse stato per le sue gravi condizioni fisiche credo che anche per dieci forzute persone sarebbe stato impossibile piegarla al ricovero. Doveva riacquistare un po' di forze e questo lo sapeva anche lei. Forse mancò da casa un mese, forse di più.

Per i primi tempi noi figli fummo accolti ciascuno in casa di una diversa zia. A me toccò la più severa, freddi occhi grigi che mi scrutavano nel profondo, e poi da capo a piedi per incutermi terrore affinché stessi buona... sforzo inutile, ero una bambina tanto tranquilla da fiatare appena, ma tanto sensibile da non restarne indifferente. I miei lunghi capelli appiccicaticci e opachi evidenziavano la burrasca degli ultimi giorni e la zia, con le migliori intenzioni possibili, come primo intervento di soccorso mi portò dalla parrucchiera. Sino ad allora i capelli me li aveva tagliati mia madre dunque per me si trattava di una frivola novità, di un evento di cui essere felice.

Dopo shampoo e fon la mia testa corvina luccicava vaporosa sotto le luci dell'appariscente salone dando armonia al viso. Fu come guardarmi allo specchio per la prima volta, non avevo mai amato la mia pelle pallida, ma mi vidi diversa, finalmente bella e con gli occhi azzurri non più spenti, ma che brillavano di una nuova contentezza. Non durò a lungo, senza chiedere il mio parere, la zia passò al secondo intervento, e impose alla giovane titolare di farmi un taglio corto e sbrigativo! Uscii da lì con i capelli di un maschio. Triste per la nuova Lara, vista e subito cancellata in un colpo di forbici.

Fu un periodo di continue mortificazioni: tornare a casa mia e trovarvi una delle zie intente nella pulizia profonda di qualche ambiente oppure dover rispondere a domande allarmate sul comportamento di mia madre.

Per fortuna nessuno esprimeva giudizi diretti su di lei... Non che fosse molto difforme il silenzio, però.

Quando mia madre rientrò pareva addormentata, triste ed ancora molto magra, ma più in sé. Non so quanto durò questo periodo, ma ricordo un'estate dedicata alla somministrazione di flebo. Ricordo che riprese i chili persi molto lentamente. Malgrado assumesse delle medicine, la sua situazione mentale tornò come prima del grande esaurimento nervoso, i suoi sintomi erano più pacati, più sotterranei, più gestibili.

Mia madre aveva vissuto quella situazione quasi come un ricovero coatto. Si era ritrovata all'improvviso in una stanza grigia senza igiene. Si era vista circondata da pazienti ai limiti del reale che riteneva non avessero nulla a che vedere con lei, in balia di personale caratterizzato da modi spicci e ineducati. Gli infermieri e gli inservienti si prendevano abitualmente beffe dei degenti, seppe riferire con amarezza e novizia di dettagli i diversi sfottò verso ciascun paziente.

Ancora oggi, quando le capita di ripensare a quel periodo, lo sguardo le diviene vitreo e colmo di umiliazione, emerge la rabbia verso chi a questo ricovero ha contribuito. Per lei fu un vero trauma, ovviamente necessario.


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