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Mio padre, tuo nonno Enrico, veniva da una realtà provinciale, figlio di una famiglia contadina, non aveva mai realmente conosciuto il suo papà, mancato molto presto. Il più piccolo di tanti fratelli ben avviati al lavoro agricolo, lui era, e si sentiva, diverso. Impiegò molto più tempo di loro per trovare la sua strada. Nei primi anni cinquanta bighellonava per le vie di una spoglia cittadina del meridione in attesa di un nuovo film americano al cinema. Forse da una di queste pellicole, chissà, forse vedendo piroettare Gene Kelly ne Un americano a Parigi, gli arrivò l'ispirazione che avrebbe indirizzato parte della sua vita. Il mito della forma fisica lo catturò e, senza aver mai provato un passo di danza, decise che avrebbe tramutato l'energia del corpo in movimento nel suo status quotidiano. Abbandonò i libri dell'unica materia che all'epoca si potesse studiare nella vicina università e si iscrisse all'Istituto Superiore di Educazione Fisica di Bologna. Non era più uno studente di primo pelo e mia nonna non disponeva di grandi risorse per pagargli gli studi, così bruciò le tappe e nei tempi canonici tornò nel suo paese d'origine a lavorare come poteva. Non gli interessava il prestigio e la carriera, ma semplicemente un modo di vivere che lo rendesse felice. Per diversi anni svolse ogni incarico disponibile: assistente sportivo, istruttore e allenatore di atletica, sinché infine non aprì una sua palestra, la prima della zona che divenne presto un punto di riferimento per atleti e non, per chiunque volesse curare il proprio fisico e la propria salute. Mio padre amava quello che faceva, lui sì che era un entusiasta. In tempi non sospetti, tuo nonno andava al lavoro in tuta da ginnastica, dimostrava ogni esercizio e seguiva ciascun cliente con la stessa attenzione con cui si occupava di un campione. Enrico aveva carisma, non il carisma della bellezza, che tra l'altro, alto e dinoccolato non possedeva in modo speciale, ma il carisma dell'allegria e dell'ottimismo, del pensare che il futuro sarebbe stato necessariamente buono per lui, per i suoi atleti, per tutti. E qui mi si stringe il cuore, perché forse tutto quel suo entusiasmo, che rese grande il suo lavoro, non lo protesse da mia madre.

Il punto è: come e perché mio padre incontrò mia madre, come e perché si innamorarono, come e perché si sposarono. Credo che quando si incontrarono lei covasse già i sintomi della sua malattia, ma questa, evidentemente, non era al suo stadio cronico. Probabilmente appariva del tutto normale e, appariscente ed esuberante qual era, nessuno avrebbe potuto immaginare ciò che, anni dopo, sarebbe successo.

Erano gli anni sessanta, mia madre aveva quasi trent'anni. Era un'affascinante ragazza dai capelli lunghi scuri e la pelle chiara –tratti che io ho ereditato- alta, in forma e curata. Beatrice indossava vestiti alla moda e portava il suo neo di bellezza come un elegante cameo. Lavorava in un'importante azienda di creazioni orafe di Milano, era una creativa e tra le principali matite a disegnare gioielli diretti ad una clientela sofisticata. Nel suo lavoro era molto apprezzata per l'originalità delle sue idee che univano praticità ed unicità, assicurando il successo dei prodotti anche presso un pubblico più ampio. Non era però la preferita del capo, il quale avrebbe voluto una collaboratrice che potesse anche presentare degnamente le sue creazioni a possibili acquirenti commerciali. Lei, invece, rifiutava questo ruolo, adducendo una timidezza, che, a ben guardare, la ragazza non manifestava nell'ambito più ristretto dell'azienda e dei diversi uffici. Già allora, in realtà, si nascondeva, fuggiva contesti sociali più ampi nel timore che qualcuno potesse ordire oscure trame a suo danno.

Da uno di questi complotti desiderava fuggire quando incontrò mio padre. Venuta in vacanza su una dorata spiaggia del Sud per un intero mese di sole, trovò un uomo affidabile e sereno, di quasi dieci anni più grande, che, interessandosi a lei, le offrì l'occasione di scappare, divenendo moglie e forse madre, cancellando tutto quello che era stato e di cui non si fidava più.

Tante volte, nel corso degli anni, colta dalle morse dell'angoscia, mia madre mi ha accennato a una terribile calunnia, deprecabile, atroce, insostenibile, che l'aveva costretta a lasciare la sua città per vivere a centinaia di chilometri di distanza. Perché è questo che fa una persona paranoica: si guarda dal mondo che la circonda come da un'orda di nemici assassini che la inseguono e che mai si fermeranno sinché non l'avranno distrutta, sinché non le avranno fatto veramente del male. Quando conobbe Enrico, Beatrice stava già fuggendo dai suoi nemici immaginari. Erano belli insieme, stesse linee, stessi capelli e occhi scuri, lui anche scuro di pelle, con un sorriso di quelli che abbelliscono un viso non perfetto, lei dagli occhi neri eppure con uno sguardo luminoso e trasparente. Fisicamente una coppia speciale. Ma non di questo si trattava, non di affinità fisiche o spirituali. Era per lei una "reale" questione di vita o di morte: cercava un uomo per essere amata o, piuttosto, per essere salvata e considerò quell'incontro un segno del destino. Anzi, probabilmente pensò persino che quello fosse amore. Amiamo sempre un po' chi pensiamo ci possa "salvare". 

NON GUARDARE I PESCECANIWhere stories live. Discover now