Uno

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Tornare a Boston è destabilizzante. Non ricordavo più nemmeno dove si trovasse di preciso il negozio di mamma ed è... assurdo. Ho trascorso qui una vita intera, poi decido di andarmene per un paio d'anni e quando ritorno non ricordo più la via della loro abitazione. A dirla tutta, è da un po' che non la ricordo, è da un po' che ho deciso di dimenticarla.

Sono passati quattro anni dall'incidente, eppure, a me sembra ancora una ferita aperta, come se fosse accaduto solo quattro giorni fa.

Dio, se mi manca.

Se chiudo gli occhi riesco a sentire ancora la sua risata nelle orecchie mentre giriamo per locali o il sole caldo di agosto scaldarmi la pelle mentre lo ascoltavo lamentarsi dell'ultima partita dei Boston Celtics. Riesco a percepire i suoi occhi su di me mentre ci scambiavamo quello sguardo d'intesa che solo due amici, due fratelli, potevano avere.

Se chiudo gli occhi per dieci minuti, sul divano, riesco a vedere Darren. Solo che stavolta non mi sta prendendo in giro, non sta battibeccando scherzosamente con Aurora, non stiamo organizzando la giornata... stiamo urlando. Sento lo schianto, lo shock a cui i nostri corpi sono sottoposti, vedo il sangue, tantissimo sangue.

Se chiudo gli occhi vedo la mia migliore amica, imbevuta di liquido rosso da cima a fondo e gli occhi chiusi. Sento il terrore che mi attanaglia, scioccato dalla sola possibilità di averla persa.

Darren non c'è, ma sento le urla, le sirene, è tutto ovattato e confuso.

Darren non c'è.

Dov'è finito il mio migliore amico? Dov'è mio fratello?

Flash della barriera jersey ricoperta di rosso intenso mi abbagliano mentre ripenso al suo corpo riverso per terra, ai paramedici che urlano cose insensate, a quelli che ci hanno trascinato fuori dall'auto.

Era un pensiero fisso il mio: "dov'è Darren?" seguito da un altro sempre più pressante: "Aurora respira?"

Non ricordo molto bene la situazione in cui mi trovavo quel giorno ma quella di aver scoperto che il mio migliore amico non ce l'aveva fatta... quella la ricordo eccome.

Ricordo che fu come una doccia gelida, cubetti di ghiaccio che mi colpivano, che mi levigavano la pelle a forza. E mentre i miei genitori cercavano di infondermi calore con la loro vicinanza, io mi trasformavo nello stesso materiale che aveva ammazzato quello che reputavo un fratello. È stato allora che ho mollato tutto quanto e ho chiuso i rapporti con chiunque.

E ora... ora eccomi qui, di nuovo a Boston, dopo aver pensato di ritornare a causa di una birra di troppo, a cercare mia madre perché nonostante tutto, mi è mancata, mi sono mancati.

La nostra famiglia si è sgretolata negli anni, e non parlo solo del mio modo di fare, di essere, ma anche delle mie sorelle. Valerie e Valentine non si parlano e questo mi dilania. Ho dato un dispiacere ai miei genitori, non meritavano che ne ricevessero un altro dalle gemelle, questo è certo.

È solo... non è facile provare sentimenti, non è facile aprirsi agli altri quando la rabbia, il senso di colpa e il rancore ti mangiano vivo, notte dopo notte, giorno dopo giorno.

Meglio smettere di sentire, meglio smettere di affezionarsi, legarsi. Meglio non aspettarsi nulla, si soffre meno in questo modo.

Niente legami, ecco le parole chiave.

Trovo il Velia's dopo una brevissima ricerca online. Accarezzo con gli occhi il nome e un fremito alle labbra me le fa stringere. Mia madre ci ha lavorato su parecchio e zia Delia le è sempre stata a fianco, difficoltà dopo difficoltà.

Merda. Questo non è un buon momento per pensare a zia Delia e al modo addolorato con cui mi ha guardato quando ho lasciato Boston. Non potrò mai e poi mai dimenticare il suo sguardo. Tra tutte, è la zia che nel primo anno non ho conosciuto molto bene, ma poi mi è bastato rivederla per attaccarmi a lei come fosse una seconda madre.

E a proposito di mamma e papà, il loro ricordo è quello che ho seppellito più a fondo degli altri. Se ripenso all'espressione sotto shock di mia madre mentre andavo via e le lacrime di mio padre... no. Niente sentimenti. Niente legami. È meglio così. È sempre meglio così.

Entro nel negozio che per anni mi ha ospitato nei freddi pomeriggi piovosi, mentre mamma lavorava e io me stavo nello studio a fare i compiti o giocare sul divano. Se le cose non sono cambiate, da qualche parte nello studio, deve ancora esserci il mio nome scritto male sotto la scrivania di mamma. Non gliel'ho mai rivelato, perché se allora lo avessi fatto, mi avrebbe sgridato di certo e io non volevo essere sgridato da lei, mi portava sempre a prendere la cioccolata calda dopo; perciò, col cavolo che le avrei rivelato una cosa del genere.

I miei occhi scattano subito su una mora mozzafiato che sembra avere la testa tra le nuvole, visto che non ha mosso un muscolo alla mia entrata. Ha la fronte aggrottata, come se stesse pensando a fondo. Mi prendo qualche secondo per ammirare il viso spigoloso; ciglia lunghe che incorniciano degli occhi lievemente allungati, simili a quelli di un gatto, naso sottile e labbra gonfie ma screpolate, prive di rossetto. In effetti, non penso abbia applicato alcun tipo di trucco, eppure, risulta bellissima.

Peccato debba interrompere le sue fantasie. Dovrebbe lavorare e invece non si rende nemmeno conto che un cliente ha appena varcato la soglia del negozio e adesso la sta ispezionando. Il cliente sarei io, non uno qualunque.

«Pensi di metterti a lavorare o...?» decido di prendere parola, lasciando la frase in sospeso.

Lei sbatte le palpebre, fissandomi, e arcua un sopracciglio delicato. «Che ti serve, occhi di ghiaccio?»

«Parli sempre così ai clienti? Mi stupisco di come questo posto tiri avanti» sibilo guardandomi attorno.

«Posso fare qualcosa per te sì o no?» sospira, come fosse annoiata dalla mia presenza. Ma chi paga mia madre? Lo sa che le sue dipendenti si comportano in modo del tutto non professionale?

«Tu no di certo» gli lancio un'occhiataccia. «Non c'è nessun altro qui?» domando.

«Al momento no di certo» sorride.

La tipa sorride. Da non crederci. La fulmino con lo sguardo e le do le spalle. Apro la porta e una folata di vento gelido mi investe mentre esco e inizio ad incamminarmi verso casa.

Non passa molto prima che risenta la voce fastidiosa della mora di poco fa.

«Ehi, D.B. hai dimenticato questo!» esclama sventolando il mio cappellino quando la guardo.

Arcuo un sopracciglio e rilascia un profondo respiro mentre mi limito a chiedere: «Quando arriva Vivienne?»

Il cappello può tenerselo, forse il primo passo da fare per smettere di provare qualcosa del tutto e lasciare andare anche lui.

«Sarà qui nel pomeriggio. Posso dirle chi è che la cerca?» ribatte, come fosse incuriosita dalla mia identità.

Beh, è ovvio che lo sia, ma di sicuro non ho intenzione di spiattellare i fatti miei a una qualunque. «No», faccio una pausa. «Non importa.» 

𝐃𝐄𝐕𝐎𝐍, 𝐇𝐀𝐑𝐑𝐘, 𝐌𝐈𝐂𝐇𝐀𝐄𝐋, 𝐑𝐎𝐍𝐀𝐍Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora