Capitolo uno

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La neve scricchiola sotto le scarpe e dalla bocca della gente eruttano nugoli di fumo, e i cappelli d'aviatore che coprono le loro teste ricordano che l'inverno era giunto.

Quando Levi entra nel suo appartamento, abbandona la busta del supermercato sul tavolo in cucina. Le persiane della finestra erano spalancate e la muffa continuava ad allargarsi sul soffitto.

«Aissh*» borbotta andando alla ricerca del grembiule da lavoro.

Quest'ultimo giaceva sul termosifone piazzato sotto la finestra, lo aveva lasciato lì per evitare che la muffa lo colorasse di bianco, mentre il resto dei vestiti stava asciugando sullo stendino in alluminio posizionato fuori in balcone.

Levi recupera dalla busta della spesa la confezione di noodles istantanei, ma non fa in tempo ad aprirla e svuotarla in un contenitore di plastica, per riscaldarla nel microonde, che suonano al campanello.

Dietro la porta c'era una ragazza con dei lunghi capelli corvino, due zaffiri al posto degli occhi e le lentiggini sul naso. Lei agita una mano per salutarlo. «Ciao, mi chiamo Arlène. Sono la tua nuova vicina di casa.»

Levi assottiglia gli occhi. «Non sei di queste parti, vero?»

«Vengo dall'Italia» ride Arlène, «è così evidente?»

«Un po', ma mi piace il tuo coreano» ammette Levi.

«Oh... grazie» dice portandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. In seguito gli porge una vaschetta di alluminio avvolta dalla carta stagnola. «Questa è per te. È una torta. Spero tu non sia allergico al limone.» Alla fine sorride. «Ora vado, ti ho già rubato troppo tempo. Sono di fronte se ti servisse una mano.»

Levi annuisce, poi la segue finché non sparisce dentro l'appartamento.


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Erano le cinque del pomeriggio quando Levi attraversa Hongdae. Era il miglior quartiere della vita notturna a Seoul, vicino all'università di Hongik, da cui prende il nome. Lo amavano particolarmente per la musica underground, gli artisti di strada che animavano i viali e i club hip-hop.

Erano le cinque e un quarto quando Levi entra nel locale dove lavorava da un mese.

Entra diretto nello stanzino, lasciando la porta socchiusa. Respira forte dal naso quando il baccano proveniente dall'esterno, gli arriva dritto nelle orecchie. Con le spalle al muro osserva il suo riflesso nello specchio: gli occhi che non esprimono nulla erano coronati da profonde occhiaie.

Il trambusto fuori alla porta sembrava placarsi ogni secondo che passava, così Levi ne approfitta per togliersi il cappotto e indossare il grembiule da lavoro. Esce dallo stanzino quando è sicuro che non c'è nessuno nelle vicinanze.

«Io sono pronto» riferisce a Soo-Min, il quale chiude lo sketch-book lasciando la matita fra le pagine e stiracchia le braccia. Infine, dal nulla, ondeggia le mani fuori dalle tasche del grembiule e le muove al ritmo di una canzone che proveniva da lontano, ma sembrava anche così vicina. Forse qualcuno la stava ascoltando nelle cuffie a un volume esagerato.

Ho creduto a bugie e creduto a uomini
Sono caduta a pezzi e li ho rimessi insieme
Ho fissato lo specchio e l'ho preso a pugni fino a farlo frantumare
Ho raccolto i pezzi e ne ho fatto un pugnale

«Sei arrivata!» grida all'improvviso Geo-seok, il proprietario del locale, dal fisico sovradimensionato e muscoloso, che intimoriva, con la faccia quadrata e una pelle sana, e abbronzata. «Bene, ci siete tutti. Arlène, noi ci fermiamo a mezzanotte, anzi interrompiamo la vendita alle undici e trenta. Il metodo di pagamento è indifferente, ma il conto deve essere unico. Stiamo risparmiando sulla carta. Detto questo, buon lavoro!»

Arlène, quella Arlène?

«Sarà fatto, capo» risponde lei. Sì, la voce era come la ricordava.

D'un tratto la sente avvicinarsi alle sue spalle. «Noi ci conosciamo già. Anche se non mi ricordo il tuo nome» gli sussurra all'orecchio.

«Levi.»

«Levi, mi sai dire dove trovare un taccuino o roba simile? Se devo prendere lunghe ordinazioni non riesco a memorizzare tutto.»

«C'è il mio.»

«E tu come farai?»

«Farò.»

Arlène ride. «Tu non sei di molte parole, vero?» Levi alza le spalle. «Come non detto. Però - ehi! Meglio così. Oggi nessuno ascolta più nessuno e tutti parlano un po' troppo. Anche io posso stare senza parlare per molto tempo, sento che tutti non possono conoscermi e scelgo chi può farlo.»

Io posso?, gli avrebbe chiesto Levi.

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*Aish è fondamentalmente un modo per esprimere una leggera rabbia verso qualcuno o un sentimento di frustrazione in una determinata circostanza. Viene utilizzato, però, solo con qualcuno vicino a te, come un amico, o un fratello. Quando lo dici di fronte ad un conoscente, o persino uno sconosciuto, potrebbero addirittura pensare che tu sia maleducato. 

So far away (Inspired by the lyrics of SUGA song)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora