𝓢𝓮𝓬𝓸𝓷𝓭𝓸 𝓐𝓽𝓽𝓸 - 𝓕𝓲𝓮𝓻𝓪 𝓟𝓮𝓬𝓬𝓪𝓽𝓻𝓲𝓬𝓮

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Predicavo messa quando la vidi lì seduta,
dinanzi a me un angelo dichiarò la sua venuta.
Occhi smeraldo la guardavano esterefatti,
un angelo o un diavolo lo disconosco a conti fatti.
Delicata la sua pelle era argentea porcellana,
accarezzata dai raggi solari sui seni come una collana.
Lunghi e mori capelli mossi le donavano innocenza,
che dentro di me conservo come una penitenza.
I giorni, le settimane, i mesi passarono,
ed insinuazione e dubbi la mia mente decoravano.
Ad ogni conclusione della messa veniva,
ed è così che la mia Fede man mano svaniva.
Una prova divina che ho fallito,
sornione il mio ego me l'ha impedito,
di affliggermi e sentirmi pentito.
L'occasione che da tempo aspettavo,
era lì davanti ai miei occhi e la desideravo.
I confessionali usati per chiacchierare,
e lo riconosco la cosa mi faceva eccitare.
In ginocchio dinanzi a me e tra le mani un rosario,
tante volte avrei voluto colmare quel divario.
Ma con pazienza il momento arrivò,
da angelica figura un rettile diventò.
Forse ahimè la contagiai io stesso,
ancora oggi ne rimango molto perplesso.
La trasformazione avvenne per entrambi,
ognuno era colpevole dei suoi cambi.
Sapevamo contro Chi saremmo andati,
ma i vestiti ci siam levati,
soli in Chiesa i sacramenti furon profanati.
Il desiderio reciproco crescente,
nell'aria poteva tagliarsi con un fendente.
Nel silenzio ascoltavamo i nostri respiri crescere,
dai suoi capelli le mie mani iniziarono a scendere.
Tirandomi il collarino ecclesiastico mi baciava,
un'avida fiera peccatrice mi assaltava.
Con forza lo tirò togliendomelo,
«Siete in una chiesa!» l'etica parlava ma era inutile ricordarcelo.
A torso nudo i miei tatuaggi venivan mostrati,
insieme al mio fisico e bell'aspetto tanto sudati.
Una grande croce sul petto sacra si ergeva,
dove con le sue affilate unghie premeva.
Graffiando poi in superficie la mia schiena,
ove delle piumate serafiche ali era piena.
Le tolsi la maglia e lei il reggiseno,
non si tornava più indietro quantomeno.
Ricordo le sue morbide dita vellutate,
tra la mia bionda barba eran posate,
e di un leggiadro tocco apparivan stregate.
«Lecca l'anello» le dissi alzando la mano,
la Fede ora sporca di un peccato arcano.
La lingua biforcuta sul freddo oro,
potenza e invincibilità senza alcun decoro,
insieme alle sue soffici labbra ne facevo tesoro.
I suoi fluenti ricci mi scorrevan in viso,
poggiata sulle mie possenti gambe senza preavviso.
La Croce villosa sfiorata dai suoi capelli,
brividi di un sacrilegio mi riducevan in brandelli.
Soavi i nostri gemiti echeggiavano nella Sacra Struttura,
il peccato consumava e contaminava la mia anima impura.
Confuso per l'estasi del momento,
per il sesso o per la vittoria della sfida ero contento?
Contro di Lui una suprema sfida è stata vinta,
dovevo prenderla come una personale sconfitta?
Avevo toccato il Paradiso con un dito,
ed il mio ego d'un premio era stato elargito.
La superiorità il corpo mi bagnava divina,
un bagno astrale che mi sottraeva dall'esser una Sua pedina.
Un'innata superbia travolgente mi assaliva,
un uragano di maestrale mi abbatteva ed investiva.
Mi sentivo al pari di una Divinità,
di qualche regno ero certamente sovrano all'Aldilà.

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Peccato capitale: SuperbiaWhere stories live. Discover now