La misura dell'attesa

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Dilatazione.

Mi soffermai su quella parola.

La dilatazione.

La dilatazione era stata importante anche altre due volte, nella mia vita.

Otto anni prima. Tre centimetri di dilatazione.

Sei anni prima. Sette centimetri di dilatazione.

I sette centimetri mi avevano resa felice, sei anni prima, perché Cristo, ricordavo che la volta prima per passare da tre a sette c'erano volute sei ore di incitazioni, urla, pianti, fuoriuscite imbarazzanti dallo sfintere, nausea, disperazione. E poi, arrivata a sette centimetri, me ne mancano ancora tre, e io volevo solo che quel coso uscisse dalla mia vagina. Non più dentro. Fuori. Quando poi quel coso uscì, capii che in realtà mi sarebbe rimasto dentro per sempre. Il coso era Mattia.

Quindi, i sette centimetri di dilatazione con cui arrivai in ospedale sei anni prima, erano sinonimo di sei ore in meno di bestemmie sussurrate, imprecazioni ignobili, umiliazioni fecali.

Lucas venne al mondo dopo tre misere ore di implorazioni.

Era accettabile, quando la dilatazione aveva una misura. La misura del parto: dieci centimetri di dilatazione.

Ma quella notte a essere dilatato era il tempo, non l'utero.

La misura dell'attesa: infinita dilatazione del tempo. Inaccettabile. Una misura inaccettabile.

Che pensieri arzigogolati. Barocchi. Sì, barocchi. Inutili fronzoli per riempire il vuoto che la disperazione mi stava scavando dentro.

Avvertii un tocco sulla spalla e quasi sussultai.

La voce di Ale mi arrivò da lontano, come se ci dividesse un vetro spesso. Non capii.

Avvertii il suo tocco sulla spalla e il vetro si incrinò.

Mi scosse leggermente e il vetro esplose.

- Maia! -

Sospirai.

- Eh. -

- Hai fame? -

Fame. Ma come, fame? Mi parve così dannatamente fuori luogo, così offensivo, così...

Eppure.

Sentii lo stomaco vibrare, poi bussare, poi prendere a spallate la mia parete addominale.

Maledetto, maledetto stomaco. Maledette funzioni primarie dell'organismo. Maledetti polmoni, che si riempivano e si svuotavano ancora, indifferenti alle mani guantate che stavano affondando nella pancia di Lucas. Maledetto cuore, che pompava il sangue come se mio figlio non stesse respirando attraverso un tubo. Maledetta e fottuta materia grigia, che partoriva pensieri barocchi mentre qualcuno che non ero io cercava di salvare il mio bambino.

Ale me lo chiese di nuovo, forse per la terza volta.

- Hai fame? -

Maledetto stomaco, bastardo, ingrato. Rispose lui, al posto mio. Emise un rumore. Un brontolio, avrebbe detto una persona normale.

Un rutto, avrebbe detto Mattia.

UNA SCORREGGIA! Avrebbe gridato Lucas. Perché scorreggia era la sua parola preferita.

"Mamma, il tuo ombelico scorreggia! " gridava sempre, quando sentiva il mio processo digestivo emettere un suono. Ma anche quando non lo sentiva. Se poteva dire scorreggia, lo diceva. A volte lo sgridavo, se lo faceva in pubblico. Ma più spesso ridevo con lui, quando lo diceva semplicemente a sproposito. Perché scorreggia è una parola buffa. La parola perfetta, per descrivere la fuoriuscita di gas dal buco del culo. E pure Mattia si sganasciava dalle risate. Ale no, si tratteneva. Ma secondo me, sotto sotto, si divertiva anche lui.

La sindrome dell'eroeWhere stories live. Discover now