47. Un buon kanelbulle non ha mai tolto di mezzo nessuno

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L'arcata superiore si distende, facendo spuntare una mezza luna dei denti bianchi e dritti.
Il sole è così forte da scavare e scolpire ogni singola vena che scorre a raso della superficie olivastra della pelle, leggermente bianca a causa del sale.
Ruota il cono tra le dita affusolate come si gira una sigaretta sfusa, maneggiandolo con soltanto la superficie ruvida dei polpastrelli graffiati.

Ha le mani troppo grandi per sbagliare e farlo cadere. Entrambi ne siamo consapevoli.

Spezza il lungo silenzio: «Lo vuoi?» sposta il cono dalla bocca, scoprendo le labbra infantilmente sporche.

Si accorge del mio sguardo fisso, quindi le pulisce subito con la lingua, forse distrattamente, forse con astuzia.
Tuttavia, indugia in un punto che sembra troppo lontano e la punta carnosa trema alla tensione dei nervi.

Mi formicola il polso. La voglia di allungare una mano e pulire il suo viso mi provoca quasi un dolore al centro del petto.

Nego, «N-no» distolgo lo sguardo, colpevole per il suo crimine, «Grazie».

«Allora perché stai continuando a guardarmi?» il tono sembra ingenuo ed è proprio per questo che le mie guance diventano bordeaux.
«Non ti piace?» indica le mie buste, oramai vuote.

Afferro immediatamente l'ennesimo pezzo di impasto, «No, no, è buonissimo» lo azzanno sotto i suoi occhi confusi ma attenti.

Non dà peso alle mie parole, ma soprattutto allo strano atteggiamento, perché tende il braccio nella mia direzione, piazzandomi il cono davanti agli occhi.
«Tieni» mi invita, «Quella cosa lì alla cannella sembra più buona».

Aggrotto le sopracciglia, «Sei sicuro?».

Annuisce con nonchalance, «Sì, dammi».

Ci scambiamo i dolci e il mio stomaco batte le ali non appena realizzo il bacio indiretto che mi ha passato.
Mi trema il sangue nelle vene soltanto al ricordo della sua lingua sulla superficie di panna, che gioca con il sapore e vi lascia sopra il suo. Chissà se riuscirò a sentirlo anche io.

Avvicino il gelato al viso, molto lentamente. Indugio nell'appoggiarci la lingua, nonostante sia delizioso e dolce e abbia l'acquolina in bocca.

Per me, scambiarsi il cibo è un gesto intimo.
È raro che lo faccia persino con la mia famiglia, eppure, con lui mi sento molto più a mio agio.

Proprio quando sto per mangiucchiare il cono, alzo lo sguardo distrattamente e per poco non sputacchio.
Assisto alla scena, quasi a rallentatore, di lui che assaggia un pezzo di girella e la mastica così difficilmente da sembrare abbia del pongo in bocca.
Cerca di deglutire, ma proprio non ci riesce.
Poi, nonostante il suo viso sia sempre incredibilmente composto e serio, si contorce in un'espressione disgustata, talmente stramba e marcata da lasciarmi a bocca aperta.

Ma... quello è Scott?

Non riesco a smettere di guardarlo e scoppio a ridere di pancia, nascondendo le labbra con una mano.
La vista viene offuscata da copiose lacrime, mentre le guance bruciacchiate tirano a dismisura. Rido fino a farmi male alla pancia.

Però, mi rendo conto che non sia per niente carino ridere in una situazione del genere, quindi tossisco sottovoce, camuffando la risata che non vuole proprio andarsene.

Sono una persona orribile, lo ammetto spudoratamente.
Quando qualcuno si fa male, io rido, a meno che non sia una situazione drammatica.
Sbatto la testa contro una mensola? Rido.
Mio fratello cade malamente? Rido.
Papà inciampa sul tappeto? Rido.
Cavoli... sono veramente crudele, ora che mi vengono alla mente certi esempi.

PATENTE E LIBRETTO, SIGNORINA.حيث تعيش القصص. اكتشف الآن