54. Amor, ch'a nullo amato amar perdona

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Sento di star per arrivare al capolinea, perché l'attrazione della sua carne mi scaraventa addosso scariche elettriche che mi drizzano i peli sulle braccia rigide, per non parlare del cuore che palpita nel petto.

Eppure, è una menzogna, una pura finzione della mia illusa mente. Le nostre bocche non si toccano.

Come se fossi uno sconosciuto, indietreggia di colpo, abbassando lo sguardo per sbaglio. Una questione di millisecondi, o forse meno, eppure io riesco a cogliere quel momento come se avesse ripetuto lo stesso gesto per tutta la sera.
Sinonimo di distacco e fastidio, qualcosa che non si vuole proprio fare.

Ho capito.

Quando anche lei se ne rende conto, è troppo tardi per guardarmi di nuovo. Oramai è fatta.
Mi ha ferito per l'ennesima volta. Mi sono lasciato ferire per l'ennesima volta.

Non era affatto un bacio, quello che voleva.

Mi alzo dalla sedia con un movimento calmo, anche se dentro di me sento il sangue bollire nelle vene e la nausea traboccarmi dallo stomaco. Trattengo l'impulso di stringermi una mano attorno alla vita e sdraiarmi a terra in posizione fetale per farmi passare il dolore alle viscere. Se non fumo adesso una sigaretta, ne uscirò pazzo. Devo scaricare in qualche modo.

Devo darmi una calmata. Non è così grave, posso passare sopra anche a questo.
Abbiamo fatto un patto. Devo rispettarlo.
Basta soltanto gettare lontano ogni pensiero devastatore e farmi scivolare addosso tutto quello che si infila sotto pelle come se non fosse impermeabile, puntando a trafiggere il cuore dritto nel centro, nella parte più viva e fragile.

Ha la prontezza di afferrarmi per il braccio prima che sia svanito, e mi sussurra: «Non farmi questo, ti prego».

Cosa? Lasciarti qui sola? Non potrei mai.
Nemmeno per tutto il disagio a questo mondo che possa sentirmi fermentare nel petto.
Non ti farei mai questo. Meglio soffrire in tacito silenzio, che vederti di nuovo piangere.

Mi libero dolcemente da quella morsa debole, allontanandomi a testa china. Più in fretta che posso per non permettere a me stesso di tornare indietro o fermarmi.

«Scott» mi richiama sottovoce, il tono fragile e spezzato.

Sono vicino, ma fingo di essere oramai lontanissimo. La sua voce candida e scalfita crea una voragine propio al centro della mia schiena, tanto da sentirmi colpito da qualcosa di pesante e affilato. Mi incurvo e la fatica a respirare si fa decisamente più assillante. 

Esco dal ristorante come se fossi appena stato liberato da anni di isolamento, annaspando come un sopravvissuto. Trascinandomi, sperduto in un mondo che non conosco e di cui non voglio far parte.
L'aria della sera è piacevole, ma il forte odore di salsedine non aiuta per niente ad alleviare il dolore alla testa e la nausea allo stomaco.

Cammino sfregando per terra le scarpe eleganti. Mi apposto in una rientranza nascosta, a metà tra il parcheggio e l'entrata. La mia macchina è a pochi passi e per un solo istante mi pento di aver lasciato le chiavi nella borsa di Amanda.

Come se potessi mai farle una cosa del genere... che patetico.
Non riuscirei ad andarmene neanche dopo aver guardato lei stessa andarsene. Rimarrei immobile, ad aspettare e aspettare, a sperare in un suo ritorno.

Ridacchio di me stesso, inspirando una profonda boccata di fumo fresco e rigenerante. Oramai i polmoni non bruciano più. L'abitudine è una brutta bestia. Diventa molto presto una fedele compagna a vita.

Perché sono qui, stasera? Che cazzo ci faccio in un posto del genere, con persone del genere e sentimenti del genere?
È davvero qui che voglio essere? Voglio sinceramente provare questo scalpitio nel petto proprio quando sono circondato da centinaia di persone? Ma soprattutto da Amanda?

PATENTE E LIBRETTO, SIGNORINA.Opowieści tętniące życiem. Odkryj je teraz