𝟐 ❅ 𝐁𝐋𝐀𝐂𝐊 𝐂𝐎𝐅𝐅𝐄𝐄...

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Da qualche anno, nella sua testa, le sue paure avevano preso le sembianze di grosse piovre dai tentacoli lunghi e viscidi. Molte di esse si nascondevano nel buio nel fondo del suo stomaco e, quando meno se lo aspettava, allungavano i loro tentacoli nel tentativo di afferrarlo e stritolarlo. Ci riuscivano quasi sempre.
Erano creature silenziose e letali in grado di insinuarsi in ogni suo pensiero, rendendo così la sua vita un incubo. E più i giorni passavano, più l'abisso che era la sua psiche diventava tetro e profondo, fornendo alle sue paure un habitat ideale in cui vivere e proliferare. Ed era proprio per questo motivo che, di tanto in tanto, si accorgeva che alcune cose che mai prima di allora lo avevano intimorito, ora gli facevano tremare le mani. Le sue paure sembravano aumentare e rafforzarsi istante dopo istante, e lui non aveva la più pallida idea di come fare per arrestare la loro corsa.

Sebbene alcuni timori andassero e venissero, alcune paure erano rimaste le stesse dacché ne avesse memoria. La paura che gli incuteva il padre era una di quelle. Qualsiasi cosa quell'uomo facesse o dicesse, il petto di Jimin tremava e immediatamente le lacrime si accumulavano tra le ciglia, agli angoli degli occhi.
Per alcuni anni, fu gestibile. Le attenzioni del padre erano concentrate sul primogenito, suo fratello maggiore, e Jimin non era altro che un fantasma, una figura sbiadita nella vita dei genitori. E a lui andava bene così.
Certo, agognava comunque l'affetto di mamma e papà, ma almeno in quel modo poteva vivere senza che gli sguardi del padre provocassero in lui un'ansia tale da fargli venir voglia di vomitare.
Ma da quando suo fratello non c'era più, le pareti di casa sua si erano trasformate in quelle di una cella dorata e lui - povero, piccolo passerotto indifeso - non aveva potuto fare altro che specchiarsi nell'oro di quelle sbarre troppo alte per essere scavalcate e troppo spesse per essere spezzate. E così, giorno dopo giorno, anno dopo anno, aveva annullato completamente se stesso; si era spogliato di desideri e ambizioni per vestire quelli che il padre gli propinava, tentando di farlo assomigliare almeno un po' al figlio che non aveva più.
Una tortura per Jimin, che di punto in bianco si era trovato catapultato in una realtà fatta di regole e sguardi colmi di giudizio, un mondo in cui non aveva mai chiesto di vivere. E in cui non voleva proprio stare.
Goccia dopo goccia, la sua linfa vitale era stata prosciugata, drenata via a forza di insulti e imposizioni.
Stai al tuo posto, Jimin, gli diceva. Sei mio figlio e come tale hai delle regole da rispettare, un ruolo preciso da ricoprire. Non mi interessa ciò che avresti voluto essere o ciò che ti sarebbe piaciuto fare. Questo è il tuo destino, il tuo futuro. Rispetta me e il privilegio che avere il mio cognome ti ha concesso. Poi, spesso, aggiungeva: bastardo ingrato.
E lui, come un fantoccio senza spina dorsale, aveva sempre annuito in silenzio. Scusa, padre. Hai ragione.

La sua famiglia era un'insieme di personalità tremendamente forti che, da decenni ormai, avevano il controllo commerciale su Seoul.
Dei purosangue che mai si sarebbero mischiati con degli umili muli.
Ed era in quel clima che Jimin crebbe.
Suo padre era un uomo crudele, potente e privo scrupoli. Sua madre una persona fredda e senza cuore, interessata solo al denaro e allo status che essere sposata con Park Minhyuk le assicurava. Entrambi amavano troppo se stessi e la loro posizione sociale per riuscire a dare affetto a qualcun altro. Fatta eccezione per Hyunjin, suo fratello. Ma solo perché anche lui, fin da piccolo, si era dimostrato come loro: un ragazzo ambizioso, furbo e un abile oratore. Sangue del loro sangue. Tutto ciò che avrebbero potuto desiderare e che Jimin non sarebbe mai stato.
Il docile Jimin era sempre stato troppo buono, gentile, servile. Codardo e pauroso. Mai avrebbe potuto rimpiazzare Park Minhyuk a capo di una delle aziende più importanti della nazione, ma sembrava proprio ciò a cui il padre stesse puntando. Non per libera scelta, ovviamente. Dopo la scomparsa del suo amato primogenito, Minhyuk aveva dovuto rassegnarsi all'idea che, un giorno, prima o poi, le redini della Park Corporation sarebbero state in mano al suo secondogenito, al ragazzino paffuto incapace di alzare la voce o di farsi valere in alcun modo. Jimin era il cane che non abbaiava né mordeva. Un innocuo cucciolo, ingenuo e senza l'aggressività necessaria per sopravvivere nel mondo. Preda e non predatore.
L'idea non faceva altro che aumentare la rabbia che l'uomo già nutriva nei suoi confronti.
Sono la valvola di sfogo sulla quale scaricare ogni sua frustrazione, pensava. Un misero sacco da boxe da prendere a pugni a proprio piacimento.
Insomma, qualsiasi fossero i motivi o le circostanze, Minhyuk non falliva mai nel rendergli una vita un inferno.
Proprio per questo motivo, alla domanda "qual è la tua paura più grande?", Jimin avrebbe sempre risposto "mio padre."

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⏰ Laatst bijgewerkt: Jan 06, 2023 ⏰

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