«Sig. Hwang, benvenuto a Milano, spero che il suo viaggio sia andato bene.»

Osservai Erik, che non la smetteva chinare il busto in modo ossequioso ad ogni parola, ma lo perdonai; era molto teso e aveva lavorato diversi anni per condurre quell'affare alla conclusione.

A furia di piegarsi entro fine serata gli verrà il colpo della strega.

«Lei è mia sorella Victoria.»

«È un vero piacere fare la sua conoscenza.» Presa dall'imbarazzo calai la testa in segno di riverenza. «E sono lieta di potermi occupare di suo figlio.»

Il Sig. Hwang si lasciò andare a una fragorosa risata. Erik mi guardò torvo e alzai le spalle. Non avevo detto nulla di male, anche se non era vero che ero felice di badare a suo figlio, lo avevo detto solo per rompere il ghiaccio.

«La ringrazio infinitamente signorina Evans, è un periodo duro per lui. Amava molto sua madre e dopo che è venuta a mancare si è chiuso in sé stesso e si rifiuta di compiere qualsiasi genere di attività. E pensare che era un ragazzo così vivace, malgrado ciò, credo che cambiare ambiente gli farà bene. Ma vi prego, accomodatevi, sarete affamati.»

Ci sedemmo tutti e tre attorno al grande tavolo di marmo che era stato allestito nella sala da pranzo. La tavola era imbandita con tante piccole ciotole di tutte le dimensioni e colori; alcune contenevano verdure, altre salsine dall'odore piccante, in altre ancora carne e poi non mancava l'irrinunciabile riso.

«Spero sia tutto di vostro gradimento, abbiamo portato un po' delle nostre specialità coreane.» Il signor Hwang, con il gesto della mano, richiamò a sé la domestica. Le disse qualcosa nella loro lingua, dopodiché la donna si congedò mestamente.

Mio fratello curvò la schiena, di nuovo. «Grazie ancora per l'ospitalità Sig. Hwang, noi adoriamo il cibo etnico ed è un vero piacere assaggiare i vostri piatti tipici.»

Cominciammo un po' impacciati a trasferire il contenuto delle scodelle nei nostri piatti, ma improvvisamente, sia io che Erik, ci fermammo con le bacchette a mezz'aria.

Ci guardammo attorno confusi, perché in sottofondo si udiva un fastidioso rumore di ciabatte provenire nella nostra direzione. Mi voltai verso quel calpestio irritante e lo vidi; il ragazzo che avrei dovuto accudire, quello che sapeva tre lingue e che sapevo essere l'erede di un immenso patrimonio.

Era alto, molto alto, più di quanto mi sarei aspettata, soprattutto comparandolo con la statura del padre. Aveva lo sguardo stanco, portava pantaloni della tuta larghi e una maglia ampia e stropicciata. Le sue braccia erano esili e le vene spiccavano dalla pelle chiarissima. Per essere il successore di un simile impero aveva l'aria decisamente trasandata, ma forse era colpa del Jet-lag.

«Lui è Hyunjin, mio figlio. Loro sono il signor Erik Evans, colui che si occuperà delle nostre proprietà qui in Italia e lei è la signorina Victoria, sua sorella, che ti farà compagnia nei giorni a venire.»

Hyu-che?

Sentendomi chiamata in causa mi rialzai dalla sedia e allungai una mano verso di lui, ma la ritirai quasi subito. Il ragazzo coreano, oltre a non ricambiare il mio gesto e tenere le sue esili braccia abbandonate inermi lungo il corpo, mi lanciò un'occhiata minacciosa.

Mi sa che non gli piace il contatto fisico, piega la schiena va'!

In impaccio abbozzai un lieve inchino e lui mi imitò. Senza proferire parola si accomodò di fronte a me, non prima di avermi rivolto un'altra un'occhiata bieca; provai una morsa al cuore e un brivido lungo la schiena. Nessuno aveva mai avuto il potere d'impressionarmi tanto con una sola occhiata. Il suo sguardo era tagliente, grave, autorevole, in più, il taglio allungato degli occhi lo rendevano ancora più intenso.

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