police hate me

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Mentre sono al lavoro, il mio cellulare inizia ad animarsi a causa di una chiamata in ingresso da parte di un numero non registrato in rubrica. Non sono solita rispondere ai numeri sconosciuti, perché la maggior parte delle volte si rivelano essere dei fastidiosi call-center, ma non so per quale motivo mi sento di fare un'eccezione: forse è il prefisso locale a rassicurarmi.

"Dipartimento di Polizia di Los Angeles, buongiorno". Una voce femminile dall'altro capo del telefono mi investe con irruenza e scandisce il mio nome e cognome, chiedendo così conferma che sia io la persona giusta.
"Sì, è corretto, sono io", balbetto confusa, mentre la mia mente inizia già ad immaginare le cose peggiori che potrebbero essere successe.
"Sono l'agente Morales, devo chiederle di presentarsi in Centrale il prima possibile".

Non so bene cosa dire, cosa fare o anche solo cosa pensare: "Scusi, di cosa si tratta?", domando cercando di controllare il tremolio nella voce, ma mi rendo conto di fallire miseramente.
"Purtroppo non siamo autorizzati a divulgare informazioni al telefono, dovrebbe venire qui".
La rassicuro che sarei arrivata il più velocemente possibile, poi ringrazio e chiudo alla svelta la chiamata, avvertendo un tuffo al cuore.

Sento l'ansia salire e il mio primo pensiero va inesorabilmente a Gus: questa notte non è nemmeno tornato a casa a dormire, non lo vedo da praticamente ventiquattr'ore e l'ho sentito raramente in questo lasso di tempo. Mi aveva detto che si sarebbe chiuso in studio a lavorare e, per quanto non mi allettasse particolarmente l'idea che sparisse per ore, non l'ho trovata una cosa strana. Faccio immediatamente partire una chiamata, ma il suo cellulare suona a vuoto: è già capitato che fosse talmente preso con la musica da alienarsi al punto da ignorare totalmente il telefono, ma questa volta ho una strana sensazione, il mio sesto senso mi dice che è successo qualcosa.

Avviso la mia responsabile di avere un'emergenza ed esco dall'ufficio con un'ora di anticipo, promettendole che l'avrei recuperata il più presto possibile e cammino alla velocità della luce fino al parcheggio. Non so nemmeno dove cazzo sia la Centrale di Polizia, sono infatti costretta ad impostare il navigatore per arrivarci: si trova praticamente dall'altra parte della città e, con il traffico che c'è a quest'ora, ci metto più di trenta minuti per raggiungerla.

Mi sento decisamente fuori luogo mentre varco la soglia dell'edificio pieno di grandi vetrate, non so dove andare, cosa chiedere di preciso, né tanto meno a chi. Mi avvicino decisamente intimidita ad un poliziotto che sta prendendo uno snack alle macchinette posizionate vicino all'ingresso: gli spiego brevemente la situazione, che tutto ciò che so è che l'agente Morales mi ha chiesto di presentarmi qui.
"In fondo al corridoio, entra nella terza porta a destra", risponde lui in tono gentile, indicando con il dito la direzione in cui devo andare.

Lo ringrazio con un sorriso tirato, poi inizio a camminare facendomi piccola piccola mentre cammino accanto ad altri uomini in divisa: mi sento decisamente a disagio, non so che ci faccio qui. Mi fermo davanti a quella che credo sia la porta giusta, dato che sul muro è appesa una piccola targhetta riportante "P. Morales".
Faccio un respiro profondo per cercare di racimolare un po' di coraggio, poi mi decido a bussare, sebbene con fare incerto.

"Avanti". Riconosco la voce con cui avevo parlato poco fa al telefono, così faccio quanto mi viene detto: spingo piano la maniglia e faccio il mio ingresso in un grande ufficio con una scrivania al centro, mentre una donna è intenta a controllare la schermata di un computer.

"Di cosa ha bisogno, signorina?", mi domanda lei, accogliendomi senza troppo zelo e tenendo gli occhi fissi sul suo laptop.
Mi presento e lei socchiude gli occhi, come per cercare di collegare il mio nome e cognome a qualcosa. "E' lei l'agente Morales? Mi ha chiamata poco fa", dico con un filo di voce.
Al che, la poliziotta solleva lo sguardo dal monitor e finalmente si degna di guardarmi. Poi, senza dire niente, solleva un dito in aria mettendomi in attesa mentre digita qualcosa sulla tastiera e controlla dei documenti sparsi disordinatamente sulla sua scrivania.

"Si sieda pure", mi fa accomodare, indicandomi con un gesto una delle poltroncine posizionate di fronte a lei, così ubbidisco in silenzio mentre inizia a spiegare: "Il suo numero di telefono è stato indicato come recapito da contattare dal signor Gustav Elijah Ahr. Le risulta?".
Nel sentire pronunciare il suo nome, mi sento come se il pavimento si fosse aperto sotto ai miei piedi e io stessi venendo trascinata giù negli inferi.
Mi limito ad annuire e pianto le unghie nei braccioli della sedia per il nervosismo: non ho nemmeno il coraggio di fare domande, vorrei chiederle che cazzo è successo, cosa ci faccio qui e dove si trova lui in questo momento, ma non riesco a dire niente: resto in silenzio ad aspettare che sia lei a darmi tutte le informazioni.

"E' in custodia da questa mattina". Fa scorrere velocemente lo sguardo su uno dei documenti che ha di fronte, senza preoccuparsi di celare troppo il suo evidente disinteresse: "E' coinvolto in una rissa".
Sgrano involontariamente gli occhi, restando impalata e con una miriade di domande che mi frullano nel cervello: "C-che cos'è successo?", balbetto, dopo essermi presa qualche secondo per riordinare le idee.

La poliziotta si da una sistemata al colletto della camicia blu, poi stringe le labbra in una sorta di smorfia: "Stando a quanto riportato da alcuni testimoni, è stato proprio Ahr ad iniziare lo scontro ma, né lui né il ragazzo che è finito in ospedale, si sono mostrati collaborativi: nessuno dei due ha voluto spiegare le motivazioni della rissa. Sta di fatto che il ragazzo ha deciso di sporgere denuncia per lesioni personali, ma ha lasciato aperta la possibilità di ritirarla qualora gli venissero porte delle scuse. Ahr ne è al corrente, ma si è rifiutato. Ha tempo una settimana per cambiare idea, dopodiché dovrà trovarsi un buon avvocato".

Ogni parola che la donna aggiunge per spiegarmi la situazione, va inesorabilmente a comporre una scena ben precisa nella mia testa: non c'è nemmeno bisogno che l'agente faccia il nome di Axel per capire che è lui l'altra parte in causa di questa storia.

"Tra le altre cose, Ahr è risultato positivo ai test antidroga e gli abbiamo trovato addosso qualche grammo di cocaina, sebbene fosse entro i limiti dell'utilizzo personale".
Mi mordo le labbra per evitare di imprecare davanti alla poliziotta, lascio cadere la testa all'indietro socchiudendo gli occhi: è mai possibile che sia stato tanto idiota?

"Non capisco", esordisco, aggrottando la fronte: "Perché io sono qui? Cosa devo fare?".
La poliziotta ignora totalmente la mia reazione frustrata, continuando a spiegarmi tutto con tono asettico: "La prassi vuole che il soggetto in custodia venga rilasciato entro le dodici ore qualora ci sia qualcuno disposto a venirlo a prendere, in caso contrario deve trascorrere almeno quarantotto ore in Centrale. In poche parole, ci serve una sorta di garante".
Faccio involontariamente un sospiro di sollievo nel sentire quelle parole: "D'accordo, va benissimo. Devo firmare qualcosa?".

Con un tono di voce decisamente meno seccato rispetto a prima, mi chiede un documento in modo da poter inserire i miei dati nel computer. Frugo alla svelta nella borsa ed estraggo il portafoglio e porgo la mia carta d'identità alla poliziotta, che l'afferra e inizia a rigirarsela tra le dita: "Sei la sua ragazza?", chiede, abbandonando totalmente la formalità e dandomi del tu.
Rispondo affermativamente, immagino che sia una domanda di routine tipica della Polizia, una di quelle da modulo precompilato per sapere il grado di parentela con il soggetto che stanno tenendo in custodia; ma noto che non sta digitando nulla sul suo computer. Sembra essere quasi più una sua curiosità personale, quindi aggrotto le sopracciglia senza capire bene dove voglia andare a parare.
"E' molto giovane, signorina", constata, tornando nuovamente a darmi del lei, mentre legge la mia data di nascita sul documento: "Mi auguro che sappia bene con chi ha a che fare".

Mi lancia un'occhiata strana, che non riesco a comprendere subito e ci metto un attimo a realizzarne il significato: sembra quasi preoccupata per me, è come se con quella semplice frase abbia voluto tendermi una mano; sono piuttosto sicura che reputi Gustav un drogato rissoso come tutti gli altri con cui ha avuto a che fare a causa del suo lavoro, credo abbia voluto assicurarsi che non mi sentissi in pericolo.

"Sì, lo so bene", rispetto di getto, con una certa sicurezza nella voce.
L'agente Morales mi lancia un altro sguardo, tiene gli occhi fissi su di me per qualche secondo e poi scuote quasi impercettibilmente la testa, mentre mi allunga qualche scartoffia da compilare e da firmare.

The last thing  I wanna do - parte 2 // LIL PEEPDove le storie prendono vita. Scoprilo ora