53. La triste non-vita di un seiðmaðr

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C'erano stati giorni in cui avrebbe addirittura fatto i capricci pur di restare un quarto d'ora in più a mollo nella vasca, nonostante le fastidiose grinze sui polpastrelli e gli strilli di sua madre che salivano dal fondo del corridoio

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C'erano stati giorni in cui avrebbe addirittura fatto i capricci pur di restare un quarto d'ora in più a mollo nella vasca, nonostante le fastidiose grinze sui polpastrelli e gli strilli di sua madre che salivano dal fondo del corridoio. Ma quello non era uno di quei giorni. Non lo era per niente.

Optò per una doccia veloce, il getto d'acqua non proprio tiepido per costringersi ad accorciare i tempi. Non aveva alcuna voglia di stare ad ascoltarsi perché Testa di Cervo era stato chiaro nel dirle che non c'era più niente da dire. Questo per il momento, per quel momento.

Dunque si trascinò fuori dal box quando fu sicura di aver lavato via il cloro dai capelli. Superò la toeletta strapiena di cosmetici a testa bassa, evitando di cancellare l'alone di vapore sul vetro per darsi una controllata.

Quel pensiero la scombussolò. Provò disgusto, un ripudio così viscerale da darle il voltastomaco. In men che non si dica un sapore acre le impregnò la bocca mentre si pentiva di avere anche solo lontanamente pensato di guardarsi.

Così funzionava la realtà. Un pensiero che si trasforma in azione, che innesca una reazione a livello fisico; che, umanamente parlando, ti aiuta, appunto, a reagire. Ti mette in guardia. Ti salva.

Da cosa?

Forse la realtà cominciava a starle stretta ora che il Litlaus l'aveva richiamata a sé una seconda volta, e il suo corpo reagiva di conseguenza. Si difendeva. Era pur vero che non aveva mai amato il semplice atto di specchiarsi, di osservarsi, di soffermarsi a ragionare su ciò che era con un'occhiata soltanto. Ma sapeva che non era mai dipeso da lei. Il senso di inquietante diversità che per anni l'aveva tenuta lontana dall'avere abitudini normali -passare ore in vasca a fissare il soffitto era tutto fuorché ordinario- non era suo. Non lo era mai stato.

Il peso di due anime.

Lór si fermò solo quando avvertì la morbidezza del tappeto sotto i talloni nudi. La pelle s'increspò di brividi quando si portò la mano davanti al volto. Osservò il marchio spiraliforme e si diede della stupida. Della stupida, dell'egoista marcia, della codarda. Poi stritolò la maledizione, conficcandosi le unghie nella carne, mentre un fiotto denso sgorgava dalla narice destra.

Mi dispiace - la voce di Dísella appariva distante, come se le stesse parlando dall'altra stanza. - Non so nuotare. Mi dispiace.

Il sangue arrivò a insudiciarle il mento. Qualcuno, oltre l'uscio chiuso, batté le nocche sulla porta e una goccia rossa precipitò sul tappeto. Lei tacque e digrignò i denti. Deglutì e le gambe presero a traballarle, instabili. A tentoni raggiunse il water e finì per afflosciarsi su se stessa come un palloncino sgonfio. Si aggrappò alla ceramica con disperata necessità, finendo per vomitare quel poco che era riuscita a mangiare.

La porta si spalancò in seguito alla sua mancata risposta, ma Lóreley non ci diede peso e affondò la testa nella bocca del wc. Nel violento rincaro, il secondo conato le arse la gola e le membra si contrassero all'unisono, tese come corde.

Litlaus - Incolore {COMPLETA}Where stories live. Discover now