26. Il bucato del giovedì

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Lór non credeva potesse esistere terrore più grande nella storia del genere umano, o qualcosa alla pari della famigerata lavatrice del giovedì

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Lór non credeva potesse esistere terrore più grande nella storia del genere umano, o qualcosa alla pari della famigerata lavatrice del giovedì. Odiava, detestava con tutto il cuore il bucato settimanale, come non sopportava di rimanere impalata davanti al suddetto elettrodomestico per tutta la durata del ciclo di lavaggio, mentre si interrogava sul corretto utilizzo dell'ammorbidente.

Werner, durante la traversata mensa-dormitori, le aveva dato milioni di alternative su come passare il pomeriggio, delle valide e sagge alternative che solo un idiota avrebbe potuto rifiutare -tipo una passeggiata a Laugardalur Park, oppure una scappatina allo zoo cittadino, tanto per rimanere in tema-.

Lei aveva gentilmente reclinato l'offerta, ergo: senza dare nell'occhio, l'idiota in questione aveva affondato il naso nel maglione ed era impallidita sul posto. Altezza ascella, naturalmente. Senza rimorsi, però, quelli mai.

Se solo Werner fosse caduto così in basso, l'avrebbe di sicuro accompagnata in lavanderia; tuttavia del rispetto verso se stesso pareva avercelo ancora. Lóreley, in caso contrario, non ci avrebbe pensato due volte a cercare di dissuaderlo. Il suo imbarazzante intimo fatto di orsetti e fragoline era e doveva restare un segreto di Stato. Niente pizzi e nessuna traccia di merletti nell'armadio - hai la pelle delicata, parole del suo dermatologo di fiducia.

Ora sedeva a terra e il sacco di lino traboccante di vestiti era rovesciato di lato. Tirò fuori un paio di jeans scoloriti, i suoi preferiti, e come d'abitudine controllò le tasche prima di ripiegarli.

Recuperò un frammento di carta dalla posteriore, quel fogliettino di cui aveva dimenticato l'esistenza e l'apparente utilità da un giorno all'altro. Lo lisciò con le dita e ad opera ultimata provò un senso di smarrimento profondo, quasi debilitante, a tal punto che ebbe un sussulto.

Lì dove poco prima c'erano state delle linee rosse e verdi a delineare un'immagine ben precisa, adesso non avrebbe potuto dire lo stesso. Lo trovò ironico: non ricordava Testa di cervo, affatto, non ricordava ciò che li aveva tenuti incollati e le rispettive dinamiche d'unione.

Sollevò il rettangolo in direzione della finestra per osservarlo meglio, le luci sanguigne del tramonto marcarono i contorni sbavati dello sketchino. Le iridi azzurre guizzarono inevitabilmente di lato, individuando la sedia accostata al comodino. Per un momento venne assalita dall'incertezza.

Si trattava di una sorta di abitudine, di un rito di cui non ricordava le corrette origini, tanto strano quanto necessario: prima di andare a dormire, afferrava la sedia e la trascinava accanto al suo letto, poi si coricava. Mai a pancia all'aria, qualche volta a pancia in sotto, sempre e costantemente rivolta verso quell'oggetto. Ogni notte si addormentava così, guardando, o meglio, scavando con gli occhi l'assenza di qualcuno che c'era stato e che ora mancava, eccome se le mancava.

"Un giorno dovrò sapere tutto anch'io" mormorò e cancellò una lacrima prima che potesse tracciarle una linea umida sulla guancia.

Non puoi piangere per qualcuno che hai scordato.
Non puoi.

Litlaus - Incolore {COMPLETA}Where stories live. Discover now