07. Un cliffhanger con i fiocchi

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Lóreley spalancò gli occhi e ancorò entrambe le mani alla scrivania per aiutarsi a tornare dritta, colta alla sprovvista da un violento capogiro

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Lóreley spalancò gli occhi e ancorò entrambe le mani alla scrivania per aiutarsi a tornare dritta, colta alla sprovvista da un violento capogiro. Divorò un paio di fette d'aria, avidamente e senza alcun controllo; la pelle attraversata da violenti brividi dapprima freddi, poi caldi. La meccanica urgenza di pizzicarsi divenne una fastidiosa necessità terrena e il dolore che le infuocò la guancia la condusse alla sentenza più desiderata di sempre: era sveglia, era cosciente, era viva.

Scarabocchiato sulla scrivania c'era il volto frammentato di Ían. O quel che ne rimaneva, a giudicare dalla violenza con cui l'aveva infine sfregiato, forzando così tanto la sua B2 da frantumarne la mina.

Non aveva la mandibola. Non ce l'aveva.

Il panico si tramutò in disagio intanto che una lacrima di sudore le rigava la fronte.

Perché non ho urlato?

"Ce l'hai fatta a svegliarti".

Lór si voltò, pallida come un cencio. "Ber?" masticò. "Che ore sono? Da quanto sei qui?"

"Le quattro" le rispose distrattamente l'altra, le mani in ammollo nell'oceano di vestiti sul pavimento. "E sono qui da un po'".

Diavolo. "Oh... e... si può sapere che stai facendo?"

In tutta risposta Bergljót rovesciò il cestino della carta straccia con una tallonata, poco propensa a giustificare l'evidente e disperata ricerca di qualcosa. Lóreley smise di guerreggiare contro il buon senso –impegnata com'era a smaltire la sbronza di brutti ricordi– e fugacemente si lanciò un'occhiata alle spalle: i suoi occhi cercarono ancora quell'inumana visione di Ían. Mentre Ber si legava i capelli e continuava l'estenuante caccia al tesoro nell'armadio, lei arretrò di un paio di passi e si apprestò a cancellare col dorso della mano il volto assunto dai suoi demoni. Doveva sparire, quella cosa, nullificarsi assieme alla paura che le stava strisciando sotto pelle.

Per un momento si sentì persa, in balia di sensazioni che il suo corpo aveva imparato a frenare e domare. Quell'incubo l'aveva ricondotta tra le braccia di un trauma che, come detto da Marcel, aveva deciso –in maniera involontaria– di seppellire per non sanguinare più. Ma quei ricordi li aveva potuti toccare, saggiare, respirare; quel senso di impotenza sentirlo fin dentro le ossa, mentre la morte, di sicuro sghignazzante, le aveva spoilerato il finale di stagione senza preoccuparsi di riservarle un cliffhanger con i fiocchi. Perché quando la faccia di Ían si era lacerata in due parti, producendo un crepitio simile a un foglio di carta stracciato con snervante lentezza, l'istinto di distogliere lo sguardo le era venuto a mancare. Aveva continuato a guardarlo, inerme e pregna d'innocenza, senza gridare, piangere o disperarsi.

Perché ero una bambina.
sta' calma

Ber le schioccò le dita sotto il naso, indelicata come al solito. Le scariche d'adrenalina si affievolirono, consumate da quella rassicurazione interiore, e con esse il martellante senso di colpa. Un rimpianto latente e invisibile, ma tanto palese come un'ombra che si allunga sotto i piedi con l'arrivo del tramonto: c'è perché deve esserci; c'è perché fa parte di te e della tua materialità.

Litlaus - Incolore {COMPLETA}Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora