05. Tempo.

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4 giugno, ore 11.26

Se mi avessero chiesto cosa desiderassi in quel momento, avrei risposto che avrei voluto avere più tempo. Desideravo avere tempo per pensare, per metabolizzare, per combattere i miei demoni interiori e le mie debolezze. Volevo tempo per piangere, per gridare e ripetere tutto dall'inizio. Volevo indietro il tempo che mi era stato sottratto di prepotenza, senza che io potessi oppormi. Avrei voluto avere del tempo per cancellare il passato e riscrivere un futuro incerto, cui avevo la consapevolezza di non voler appartenere. Volevo solo del tempo... Per ricomporre il puzzle con i cocci del mio cuore.

Ero ferma da un paio di ore a osservare il vuoto dinanzi a me. Seduta sul letto con le gambe incrociate, aspettavo che arrivasse il momento fatale. I miei occhi contemplavano il bianco della parete, schizzando verso gli angoli della stanza ogni qualvolta c'era un rumore facendomi sussultare. Ero in attesa. Impotente e impreparata a quello che sarebbe venuto dopo.

Pensavo e ripensavo. Avrei voluto che tutto sarebbe andato nel migliore dei modi, ma sapevo che la realtà non poteva essere così semplice.

Qualcuno bussò alla porta. Mi sporsi in avanti ritornando con l'attenzione al presente. Sol insieme a Lake fecero il loro ingresso in stanza.

«Possiamo? Vorremo solo parlarti un po', prima di andare.» Annuii. Mi spostai per permettere a entrambe di potersi sedere al mio fianco.

«Come stai?» chiese la più grande.

«Come se fossi in un frullatore e qualcuno si divertisse ad azionarlo» ironizzai. Lake rise alla mia pessima battuta. Doveva essere davvero allegra, non c'era nessun sentore di paura o di rabbia sul suo volto. Niente emozioni negative in lei, neanche preoccupazione. Mi tormentai su quali sfide avessero affrontato quei ragazzi, quali fossero le loro vite e cosa li avesse condotti fino a lì. Di certo non sembravano un gruppo di scapestrati alle prime armi. Osservai quel dolce sorriso innocente ancora un po'. Chissà quanti ne aveva spenti.

«Ho molta più paura di quanto non dia a vedere. Ho bisogno di sapere che James stia bene.» Strinsi i pugni.

Per come la vedevo io in quel momento c'erano solo due fazioni: gli eroi e gli antagonisti. Se avessi riavuto mio fratello lo saremmo stati di certo, il seguito, invece, sarebbe stato imprevedibile.

«Siete molto legati?» indagò Lake addolcendo lo sguardo già di per sé innocente. Annuii convinta.

«Siamo fratellastri, ma per me ha il mio stesso sangue: siamo cresciuti insieme spalla a spalla. È la mia famiglia» ammisi. Faceva davvero male parlarne. Forse avrebbero potuto capirmi, sembravano affiatati e forse qualche legame lo avevano sviluppano anche tra di loro. Forse era stato proprio in virtù di quell'affetto che provavano gli uni per gli altri che aveva spinto la massa a perseguire la mia crociata e a non abbandonarmi.

Mi interrogai su cosa vertesse la loro di causa, invece. Cosa significava tutto ciò che avevo visto e udito durante il rapimento di James. Meritavo delle spiegazioni. O almeno credetti di avere il diritto di sapere se fosse tutto un gioco della mia immaginazione. Iniziai dalle piccole formalità.

«Come... Come facevi a sapere il mio nome?» domandai guardando dritta negli occhi Sol. Lei sembrò tentennare, scuotendo il capo prima di rispondere seriosa.

«Sei la nostra missione.» Non capii cosa volesse intendere. Piegai la testa lateralmente in maniera interrogativa.

«Missione?» la mia voce tradiva una certa insofferenza. Le mie emozioni si erano completamente attenuate, l'apatia in quel momento era l'unica cosa capace di potermi contraddistinguere.

«Missione, come quelle che si danno ai team più promettenti dell'Accademia e non per vantarci, ma noi siamo i migliori! Siamo davvero le star di tutto lo spazio adimensionale.» Lake era veramente euforica nel parlare e io ancora una volta non riuscivo a collegare e a dare senso a quelle parole.

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