21. Attanagliata.

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Ottavo giorno

«Ce l'ho fatta, Sander. Ce l'ho fatta...» sussurrai al ragazzo che mi sorrideva gioioso. Risi lasciandomi andare alla contentezza più assoluta. In un lampo tutti i colori tornarono alla loro naturale lunghezza d'onda contestualmente al cessare del suono.

«L'ho sempre detto che avresti riserbato grandi sorprese!» Il mio istruttore per la prima volta mostrava i suoi canini in un candido gesto di incoraggiamento.

«La mia forza è tutto ciò che provo! Ho sempre creduto che solo i sentimenti più cupi e tristi avrebbero potuto aiutarmi, ma la realtà è che ogni singola emozione che provo è la fonte del mio potere» cercai di spiegare. Ero davvero euforica. Sander rideva beffardo.

«Per oggi può bastare. Cosa aspetti, allora?» Lo guardai interrogativa. «Vai! Vai a dirlo a chi pensi possa essere felice con te. Io sono solo un insegnante... sono certo vorresti essere con qualcun altro.» Mi morsi il labbro per quanto avesse ragione. Lo ringraziai con uno sguardo, iniziando a correre a per di fiato oltre la porta. Era vero, c'era qualcuno che doveva sapere.

Dovevo scendere. Ma dove andare?

In quel preciso istante non fu la mia mente a decidere, ma i miei ricordi a farsi prepotenti. Ripensavo a Max e al percorso che aveva intrapreso: al terzo piano, la prima svolta a destra, la seconda a sinistra perdendosi poi nei corridoi labirintici.

"Sai dove trovarmi" mi aveva assicurato. Stranamente, si era rivelato veritiero.

Ripetei il percorso pedissequo, cercando la mia meta e vagliando ogni camera. Stavo andando nella direzione giusta.

Lessi i nomi dei miei compagni uno dopo l'altro: Maxfield Preston, Lake Rooney, Jezebel Joslie, Kit Farrey, Soledad Ramirez. Erano loro, mi stavo avvicinando: il mio obiettivo era niente meno che l'ultimo spazio di quell'infinito corridoio.

La lastra in metallo dorato recitava Cristopher Hart Thompson.

Stoppai la mia corsa congelandomi sul posto per prendere fiato. Quando alzai una mano per battere le nocche contro l'imposta, mi sentii irrimediabilmente a disagio. Per la prima volta pensai che fosse sbagliato essere piombata lì. Deglutii nervosa.

Lasciai che il palmo sfiorasse la lega di ferro e ottone, con l'unico scopo di riflettere sulle conseguenze. Ma quel contatto bastò al fine di attivare la porta stessa. Un piccolo spiraglio fu ciò che mi offrì in un primo momento, ma era più di quanto avessi mai osato chiedere. Captai i rumori sordi ancor prima di metterlo a fuoco sulla retina, piccoli e veloci battere in continuo, mentre il suo respiro pesante riempieva l'aria umida. Irregolare nel numero e nella frequenza non c'era un ritmo a cui sottostava, ma semplicemente si faceva guidare dall'istinto.

Quando la porta traslò completamente, notai l'incredibile incidenza con cui Christopher continuava a battere contro la superficie piombata. Da solo, in quell'immensa camera da letto, prendeva a pugni la solitudine al fine di migliorare le prestazioni personali. Alternava il peso del corpo da un piede all'altro, avendo come perno un segmento diverso del corpo a ogni diretto. Il sudore imperlava il torace e la fronte, rendendo più facile intuire quali fossero i muscoli contratti in ogni azione, che fletteva come se fosse l'esercizio più semplice del mondo. Delle bende spesse e di colore scuro ricoprivano i suoi avambracci e le gambe, aumentando il carico e il vigore.

La porta cigolò, svelandomi al proprietario dell'appartamento in tutta la mia irrequietezza.

Il biondo sfiorò il muro piombato come per segnare mentalmente da dove avrebbe dovuto riprendere a colpire. Rise divertito.

«Sei lì da molto?» domandò avvicinandosi al letto per raccogliere un panno di spugna ed eliminare l'eccesso di sudore che per effetto della gravità pendeva sul suo corpo.

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