IGNI

Od Valeroot

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[In riscrittura] Qual è il vostro posto nel mondo? Cassie non ne ha uno. Viene costantemente sballottata da u... Viac

Prima di iniziare
AVVISO
Prologo
1 - La festa (I)
2 - La festa (II)
3 - Comitato di accoglienza
4- La Churchill Accademy (I)
5 - La Churchill Accademy (II)
6 - Incontri (I)
7 - Incontri (II)
8 - Il medaglione
9 - Wenham Lake
10 - Sette shots in paradiso (I)
11 - Sette shots in paradiso (II)
12 - Leggende
13 - Questione di prospettiva
14 - L'invito
15 - I Parker
16 - In maschera (I)
17 - In maschera (II)
19 - Il preside Evans
20 - Sogni
21 - Blackout
22 - Virgilio
23 - Stevow
24 - Ricerche
25 - I Case
26 - Pessime similitudini
27 - Trick or Treat (I)
28- Trick or Treat (II)
29 - Inferno e Paradiso
30 - I mille volti
31 - Collaborazione
32 - I medaglioni
33 - La calma prima della tempesta
34 - La partita
35 - Rivelazioni (I)
36 - Rivelazioni (II)
37 - Cassie (I)
38 - Cassie (II)
39 - Il piano
40 - L'effrazione (I)
41 - L'effrazione (II)
42 - L'effrazione (III)
43 - Fratellanza (I)
44 - Fratellanza (II)
45 - Robin Hill Road
46 - Wenham Lake (I)
47 - Wenham Lake (II)
Ringraziamenti e avvisi
Alex
Sequel
Extra - Alex
Avviso 🖤

18 - Il Sole

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Od Valeroot


Regola n. 5 del V.I.
Si mangia hamburger almeno una volta a settimana
(Dodici anni, Seattle)

Alex spense il motore nello spiazzo desolato dell'unica caffetteria aperta 24 ore su 24 a Danvers.

Ormai doveva essere almeno mezzanotte e il buio aveva avvolto la città come una spessa coperta invernale nella quale piccoli puntini luminosi erano appena percepibili a causa dei riflettori puntati su quella striscia di parcheggi.

Ignorai l'aspetto degradato di quella zona della città e il fatto che stessi andando a bere un caffè in abito da sera e tacchi alti. Se fossimo stati ancora a Los Angeles, una delle ultime mete mie e di James, credo che nessuno avrebbe fatto caso a noi, ma in quel momento ci trovavamo nel moderato Massachusetts e raramente saremmo passati inosservati.

Bruciai velocemente i metri che separavano l'abitacolo caldo della macchina dalla porta del locale. Gli spifferi gelidi della notte s'insinuavano con troppa facilità nella trama di pizzo del mio vestito, ma non avevo alcuna intenzione di lamentarmi. Avevo bisogno di scoprire cosa diamine fosse successo con Justin.

Lo scampanellio della porta preannunciò il nostro ingresso, quando Alex fece leva sulla maniglia e mi fece segno di precederlo. Credo che in ogni caso la cameriera si sarebbe resa conto del nostro arrivo, perché in tutto il locale un solo tavolino era occupato in quel momento, ma la cosa non mi sorprendeva: non doveva esserci un grande movimento a quell'ora, soprattutto in un giorno infrasettimanale.

«Meglio così» commentò Alex, intuendo ciò a cui stavo pensando.

Indicò comunque un tavolino un po' appartato sul fondo del locale, e decisi di assecondare il suo invito. Ero consapevole che più fossi stata collaborativa, prima mi avrebbe rivelato quanto avesse scoperto.

Scivolai lungo il divanetto in pelle, mentre Alex prendeva posto di fronte a me, giusto in tempo per vedere due cartellette in pelle rovinata atterrare di fronte a noi. Le guardai perplessa, sembravano reduci dalla guerra in Vietnam.

«Volete ordinare, oppure vi lascio qualche minuto?».

Una ragazza dall'aria seccata era impalata alla fine del nostro tavolo. Stava masticando rumorosamente un chewing gum, mentre con la mano destra continuava a tamburellare la penna sul block notes.

Alex mi guardò velocemente in cerca di conferma. «Due caffè andranno bene» rispose attendendo un mio cenno.

Annuii, per nulla interessata a questioni banali come il cibo o le formalità sociali. L'adrenalina stava iniziando a scemare, rimpiazzata da una stanchezza che aveva iniziato ad aggredire le mie palpebre. Era il residuo di tutta l'ansia che il mio corpo aveva dovuto gestire quella sera, sommato al fatto che da quando vivevo a casa Parker mi era praticamente impossibile dormire un'intera notte senza svegliarmi ripetutamente.

«Allora» mi costrinsi a mormorare, mentre la ragazza finiva di segnare l'ordine. Aspettai, però, che fosse tornata dietro al bancone per proseguire e tornai a osservare Alex con una punta d'agitazione. «Cosa ti ha detto Justin?» domandai.

Ero sicura che Alex fosse impaziente quanto me di analizzare la serata, ma sorprendentemente lo vidi rilassare la schiena contro il divanetto, mentre un'espressione di sfida incorniciava il sempre presente sorrisino ironico.

«Oh no, prima tu, Reed» mi redarguì, scuotendo la testa. «Voglio proprio vedere quanto hai già sentito».

Alzai le sopracciglia. «Fai sul serio?».

Mi sentivo... delusa. Credevo che avessimo superato quella fase: quella in cui entrambi non facevamo altro che metterci alla prova, probabilmente per non scoprire troppo le rispettive intenzioni. Eppure, ogni volta che mi concedevo di lasciarmi andare, lui ristabiliva subito le distanze con qualche comportamento irritante. Il che non era neppure un problema, ma quella sera non eravamo uno contro l'altro.

Alex non ebbe modo di ribattere, perché il nostro scambio fu interrotto dall'arrivo della cameriera. Sbatté sul tavolo le nostre tazze con fare frettoloso. «Se avete ancora bisogno da me, sono a vostra completa disposizione» recitò con voce piatta.

Il suo tono era talmente annoiato che mi ritrovai a coprire la bocca con la mano per nascondere un risolino, mentre Alex aveva preso ad osservarla a metà tra il divertito e l'irritato.

Lei non ci degnò di un'ulteriore occhiata. Proprio come era arrivata, si dileguò in un istante.

«Probabilmente neppure io sarei troppo felice di lavorare fino a tardi» commentai, spingendo le mie dita irrigidite dal freddo contro la ceramica calda.

«Concentrazione, Reed» mi riprese con tono basso e ironico. «Inizia a raccontare qualcosa.»

Una parte di me era estremamente riluttante all'idea di assecondarlo. Mi ero imbucata a una festa con lui, avevo sopportato quel folle di suo cugino e mi aveva abbandonata per metà serata da sola. Ero io quella che meritava una spiegazione. Per quello, lo osservai fissa per qualche istante, indecisa sul da farsi.

Alex scosse piano la testa. Sembrava divertito, come se si fosse aspettato che cedessi, ma allo stesso tempo non fosse del tutto sorpreso della mia reazione.

«Ho molto più di te da raccontare» mediò, «quindi sarebbe davvero utile se per una volta mi ascoltassi».

Portai la tazza alle labbra, lasciandoci crogiolare nel silenzio intervallato da una musichetta blues ancora per qualche secondo. Il caffè era slavato ma caldo e accolsi quel cambio di temperatura nel mio corpo con un lieve brivido.

«Solo perché me lo chiedi sempre in maniera così gentile» replicai con una punta di ironia.

Alex si limitò a ridacchiare, facendomi cenno con la mano di proseguire.

«Ti dice niente 'Figli Fondatori' o 'Giocatori'?» chiesi andando dritta al sodo.

Dato che per me erano dei concetti senza senso, potevo solo sperare che per Alex avessero un significato diverso. Lui, però, scosse la testa e il modo in cui la sua fronte si corrugò automaticamente mi faceva credere che la sua risposta fosse sincera.

Iniziai a riassumere brevemente l'incontro con Jane, dalla sua convinzione che io fossi proprio una dei Giocatori e dal fatto che avesse utilizzato quel termine anche per definire il gruppetto di invitati che stavo ascoltando.

«In realtà, il concetto di 'fondazione' non mi è del tutto nuovo» riflettei, continuando a stringere le mani attorno alla tazza. «Quando siamo andati al Wenham Lake, Caleb mi ha parlato di un Consiglio della Fondazione, una sorta di società segreta attiva dal seicento circa, con il compito di proteggere Danvers».

Fino a quel momento, non mi era chiaro se quella storia fosse una novità solamente per me, dato che ero appena arrivata a Danvers, o se fossero leggende trasmesse unicamente all'interno della famiglia Evans. La reazione di Alex però rese ben evidente, che fosse la prima volta che sentiva quel racconto.

«Un consiglio segreto?» ripeté in tono poco convinto. «Fa molto 'caccia alle streghe' Reed, ma mi sembra davvero poco probabile: ci sarebbe qualche documento e poi Caleb Evans è famoso per raccontare storielle più o meno credibili».

«Sono d'accordo» lo interruppi, mostrando chiaramente che fossi dalla sua parte. «E a discolpa di Caleb, anche lui non crede a queste leggende» proseguii, cercando di mettere insieme tutti i pezzi. Era difficile sbilanciarmi con qualcuno che sembrava il primo a non esporsi troppo. «Nessuno crede a questo Consiglio, ma c'è una cosa che non ti ho detto...» mormorai iniziando a sentirmi stupida, ancora prima di concludere la frase. Alex, però, mi osservava assorto e quell'attenzione mi diede la forza di continuare. «Il triangolo era il simbolo di questo Consiglio, quindi... non so, ho la sensazione che ci sia altro».

Mi strinsi nelle spalle, anche quando Alex continuò a osservarmi concentrato. Non avevo molto di più da offrire, e non avrei aggiunto altro in quella fase. Principalmente perché non sapevo ancora quale fossero le reali motivazioni di Alex; non sapevo perché fosse venuto a quella festa con me, o se il legame tra il medaglione e sua madre potesse essere la leva fondamentale per la quale mi stava aiutando. Tuttavia, sapevo che se fosse quella la sua motivazione, non avrei avuto bisogno di aggiungere altro.

Alex rimase qualche secondo a fissarmi, bevendo un sorso di caffè, mentre soppesava le mie parole. «Okay, ci sto» disse infine con tono insolitamente serio, abbassando la tazza sul tavolo.

«Ci stai?» ripetei, quasi sconcertata dalla sua risposta. «Non credevo che fossimo qui per convincerti».

In realtà una parte di me si sentiva sollevata per la facilità con la quale Alex sembrava volermi assecondare. Non sapevo mai bene cosa aspettarmi da lui e, anche se avevo dato per scontato che volesse aiutarmi, sentire quelle parole pronunciate ad alta voce aveva un qualcosa di rassicurante.

«Siamo qui...» iniziò lui, staccandosi dallo schienale e tornando ad appoggiare gli avambracci sul tavolo. «... Perché è evidente che tu abbia bisogno di una mano, come avevo già teorizzato la sera in cui ci siamo conosciuti, per altro».

Schiusi le labbra. Sbaglio o mi stava nuovamente sfidando a ribattere?

«Scusa?» ribattei a metà tra il fastidio e lo sconcerto. «Io non ho affatto bisogno di una mano» misi in chiaro. E citare la sera del nostro incontro era davvero un colpo basso, dato che si era preso gioco di me. «Se non mi fossi accorta del disegno sull'invito, ora tu saresti a casa a guardare una partita di baseball» lo accusai.

Alex si limitò a passare la lingua sul labbro inferiore, mentre il suo sguardo vagava oltre le mie spalle, in un atteggiamento pensieroso che per un istante mi fece credere di aver vinto.

«Preferisco il basket» ribatté infine, tornando a posare gli occhi su di me.

A quel punto, l'unica cosa che mi avrebbe fatta sentire meglio probabilmente sarebbe stato assecondare l'impulso di alzare il dito medio nella sua direzione, ma ripiegai sull'afferrare la mia tazza per bere un lungo sorso di caffè, continuando a osservarlo male dalla mia posizione.

Lasciai che l'aroma tostato calmasse i miei nervi o, beh, credo che lo avrebbe fatto se non mi avesse strappato una smorfia subito dopo, visto che era una brodaglia talmente insapore che mi sembrava di bere acqua sporca. Però era caldo, e anche se il diner era avvolto da un rassicurante tepore, mi ritrovai ad avvicinare la tazza al mio viso per bearmi delle spirali di condensa calda che salivano verso il soffitto.

«Allora, vuoi dirmi cosa hai scoperto, ora?» chiesi con tono esausto. Era tardi ed ero stanca e infagottata in un vestito troppo elegante e troppo scoperto per quella serata.

Alex alzò il pollice verso la vetrata alla nostra destra, che dava sui parcheggi. «Sicura di non voler tornare a casa?».

Lo fulminai con lo sguardo. «Non provarci neanche» lo ammonii. Era troppo comoda tirarsi indietro, quando io ero stata onesta e avevo condiviso le mie informazioni con lui. «Dimmi cosa hai scoperto da Justin».

Avevo l'impressione che non fosse abituato ad essere contraddetto, perché Alex mi rivolse un'occhiata infastidita, prima di sfilare la giacca. «Tu mettiti questa» mi ordinò, rimanendo con la sola camicia bianca. «E io inizio a parlare».

Potevo sperare che la smettesse di darmi ordini? Probabilmente no, e fu per tale motivo che lasciai perdere qualsiasi crociata a difesa del mio libero arbitrio, pur avendo il sacrosanto diritto di rimanere con un vestito di pizzo senza maniche con soli dieci gradi, senza che alcun Alexander Case si sentisse libero di sindacare la mia scelta.

Accettai la giacca, perché avevo davvero freddo e avevo davvero bisogno che iniziasse a parlare, ignorando le regole base di buona educazione che mi avrebbero imposto di rifiutare almeno un paio di volte, prima di cedere.

Alex mi osservò rimanendo zitto e mantenendo quel suo sguardo severo, finché non mi fui infilata la sua giacca. Quando ebbi finito, sollevai le braccia con aria accondiscendente, per fargli vedere che avevo seguito le sue indicazioni e gli feci cenno di andare avanti.

Sorrise, vagamente divertito dalla mia scenetta, o forse compiaciuto per il fatto che lo avessi assecondato senza fiatare. Sì, sicuramente era così.

«Il problema di Justin è che, se è sobrio, non dice una parola» iniziò pensieroso, pizzicandosi la base del naso. «Invece quando beve...» s'interruppe, «beh, hai visto anche tu come diventa».

«Quindi è stato tutto inutile?» conclusi con una punta di amarezza.

No, Alex aveva detto di aver molto più di me da raccontare. Semplicemente, non doveva essere Justin la chiave.

Lo vidi chiudere un occhio, come se stesse soppesando le mie parole. «No, non direi» replicò infine.

Infilò una mano in tasca, estraendo un foglio ripiegato in quattro. Lo fece oscillare svogliatamente di fronte al mio viso, finché non lo afferrai veloce. I racconti di Jane erano una cosa, ma quello... quello era un indizio in carne e ossa. Qualsiasi cosa fosse.

Distesi il voglio sul tavolo in mezzo a noi, lisciandolo per appianare le pieghe, mentre iniziavo a leggere l'intestazione. Sembravano una serie di transazioni economiche verso altre città, tra cui una miriade di pagamenti di una la società chiamata Il Sole.

Guardai Alex confusa. Non ero un granché in matematica o in economia, ma adesso ero ancora più perplessa del solito: davvero ci eravamo imbucati solamente alla cena di qualche società?

«Il sindaco ha aperto un salone di bellezza, o ha deciso di investire in fonti rinnovabili?» ironizzai, riprendendo a guardare ogni transazione dall'inizio, non appena i miei occhi si erano posati sull'ultima riga.

Un basso sbuffo fece spostare la mia attenzione dal foglio ad Alex. Vidi la sua mano risalire dalla base del collo fino ai capelli arruffati, in un gesto lento e annoiato. «Fortuna che non hai bisogno del mio aiuto, Reed» mi riprese e io istintivamente alzai gli occhi al cielo. «Non hai notato che alla festa questo logo era impresso ovunque?» chiese, tamburellando con l'indice su un piccolo sole stilizzato.

«Ovunque, tipo...?».

Alex fece un gesto distratto con la mano. «Sui tovaglioli, sui centrotavola...».

«Wow, non credevo che fossi un amante di queste cose» lo interruppi. «Scommetto che passi il sabato sera a guardare quei programmi dove organizzano le cerimonie».

Se uno sguardo avesse potuto fulminare, io sarei stata un grazioso cumolo di cenere e pizzo blu.

«Sto attento ai dettagli» ribatté con estrema lentezza, «cosa che tu evidentemente non fai». Prima che potessi rispondere, si sporse verso di me, indicando alcuni movimenti bancari. «Quattro visite a Beverly negli ultimi due mesi, tre a Boston» disse, indicando i primi nomi dell'elenco. Non sapevo perché, ma avevo la sensazione che sapesse i nomi di quelle città a memoria, anche se era impossibile che avesse avuto il tempo di registrare tutti quei dati in così poco tempo. «Ho pensato che potessero essere filiali di questa organizzazione» riprese con tono pratico, «ma poi ho visto questi.» Fece scorrere il dito alla fine del foglio. «Weymouth, Quincy, Hampton e Portsmouth» recitò senza il minimo dubbio. Tutte piccole città, un po' come Danvers.

Sentivo di essere appena finita in un frullatore di nomi e numeri. Su cosa diavolo avevamo messo le mani?

«I nomi dei passeggeri sono tutti diversi» gli feci notare, indicando diverse righe.

Alex annuì, dandomi prova che avesse già notato anche quel dettaglio.

«Quindi» azzardai, continuando a fissare il foglio. «O l'organizzazione vanta la presenza di moltissime persone...»

«...o sono sempre le stesse con altri nomi» concluse lui per me.

Non avevo idea di cosa potesse significare quella supposizione, almeno per noi e per le nostre ricerche. Tuttavia, Alex non mi lasciò per molto in quella situazione, a fissare quell'ammasso di numeri e nomi, mentre torturavo il labbo inferiore con i denti. Si sporse verso di me e un istante dopo un secondo foglio s'inserì nella mia visuale.

«Poi c'è questo» continuò con fare pratico, girando il documento nella mia direzione affinché potessi leggerlo.

Una mostruosa lista di numeri e indici di cui non avevo mai sentito parlare riempì i miei occhi. Non avevo idea di cosa potesse essere, ma non aveva molta importanza perché in fondo non avevo capito il senso neppure del foglio precedente.

Sentivo sulla punta della lingua le parole che avrei dovuto pronunciare: 'ho bisogno di aiuto', ma dopo i battibecchi tra me e Alex non avevo proprio l'intenzione di dargli quella soddisfazione.

Mi limitai a osservarlo con aria sarcastica, appoggiando il mento sul palmo della mano e sollevando un sopracciglio. «Ti aspettavi davvero che capissi qualcosa?».

Alex mi fissò per qualche istante, pensieroso, come se stesse valutando tra diverse riposte. Ancora una volta, mi sorpresi nel constatare la presenza di quelle pagliuzze dorate che in lontananza venivano sommerse dall'azzurro delle sue iridi, e solo in quel momento mi accorsi di quanto fossimo vicini per notare quel dettaglio.

Per condividere quei documenti, entrambi ci eravamo sporti sul tavolo, puntellando i gomiti. Non era come alla Churchill Accademy, dove a seconda delle domande ci allontanavamo o ci avvicinavamo. No, questa volta stavamo davvero facendo uno sforzo per venirci incontro.

Nonostante ciò, drizzai la schiena e arretrai lievemente, ristabilendo il mio spazio personale.

«In effetti non credevo che avresti capito» ammise candidamente, «ma è stato divertente vedere la tua piccola mente al lavoro per una volta» continuò, guardandomi negli occhi.

Feci una smorfia. «Allora spiega» gli ordinai.

«Credo che siano nomi di server e di satelliti» chiarì con tono calmo e competente. «Devo controllarli meglio a casa però, perché mi serve un computer per elaborare i dati».

Server e satelliti?

«Chi potrebbe avere dei satelliti?» blaterai.

Alex rimase zitto, ma il modo cauto in cui mi osservava mi faceva intendere che avesse qualche idea.

«Vuoi farmi credere che abbiamo a che fare con qualche organizzazione terroristica o con spie americane?» domandai, calcando pesantemente la vena ironica della mia voce.

Era... assurdo! Quelle erano tutte ipotesi che potevano esistere solo nei film o nelle storie che mi piaceva tanto leggere. Di certo, non erano teorie che si potevano applicare alla vita vera.

L'aria perplessa che assunse Alex per una volta mi rincuorò, invece di farmi sentire stupida. Certo, era evidente che lui avesse pensato a tutt'altro, ma ne fui sollevata.

«Non credo che la CIA lascerebbe i suoi documenti senza alcuna protezione». Graffiò l'aria con la mano, in un gesto distratto che denotava tutto il disinteresse per le mie meno che probabili ipotesi.

«Aspetta» farfugliai e per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva. «...Dov'è che li avresti trovati, esattamente?».

Realizzai che forse non volevo sentire davvero la sua risposta, e prima di quel momento non avevo assolutamente pensato a come Alex fosse entrato in possesso di quei documenti. Il ché la diceva lunga sulle mie doti da investigatrice.

«Beh, dato che Justin si è rivelato inutile, sono entrato nel vecchio studio del sindaco» mi informò con aria distaccata. Si comportava come se mi avesse appena messa al corrente di un evento estremamente banale. «Sapevo di essere già stato in quel posto, perché non appena ho visto le scale, ho capito subito dove andare e questi fogli» Li indicò con una mano, «dovevano essere appena arrivati, perché erano in una busta sopra a tutti gli altri documenti».

«E tu li hai... presi?» mormorai.

Alex annuì. «E io li ho presi» confermò.

Forse mi sarei dovuta scandalizzare, sapendo che Alex aveva appena rubato dei documenti - probabilmente riservati - dall'ufficio del sindaco di Danvens, eppure quelle azioni non riuscivano a configurarsi come deplorevoli nella mia testa.

«Ottima idea» commentai senza neppure rifletterci. Quando però notai l'espressione arrogante che si era formata sul suo viso, mi affrettai a riprendere le redini dei miei pensieri. «Almeno ti sei reso utile, questa volta» dissi sottolineando bene le ultime due parole.

Fu tutto inutile. La sicurezza di Alex non venne minimamente scalfita dalla mia retromarcia.

«Per ora le uniche informazioni certe le ho trovate io» tagliò corto, ma un luccichio nelle sue pupille dilatate tradì il fatto che mi stesse solo prendendo in giro.

«Per ora» concordai.

Rimanemmo impegnati per qualche istante in quel braccio di ferro tra i nostri sguardi, ma poi all'improvviso l'attenzione di Alex fu catturata da qualcosa oltre la mia spalla destra. La sua espressione si tese e i suoi lineamenti si affilarono di una tensione nervosa.

«Cosa ci fa Evans al Blackout?» mormorò con voce fredda e tagliente.

Mi voltai nella direzione indicata dal suo sguardo e trovai Caleb impegnato a salutare alcuni ragazzi che non conoscevo. Istintivamente mi mimetizzai un po' di più con il divanetto. Bugie: ecco cosa gridava il mio cervello, insieme a uno strano istinto che mi aveva ricordato di nascondermi. Perché sarebbe stato difficile spiegare a Caleb come la mia serata si fosse trasformata da una cena in famiglia a un caffè con Alexander Case.

Continuai a scrutare l'esterno, cercando di capire se ci avesse già visti prima di quel momento. Caleb però sembrava troppo preso a chiacchierare con alcuni ragazzi per guardare nella nostra direzione. Uno di quelli, tra l'altro, non mi sembrava totalmente uno sconosciuto, ma impiegai un po' per capire dove lo avessi già visto.

«Quello biondo credo sia un suo amico» mormorai senza neppure pensarci. Alex aveva questa strana capacità di tirarmi fuori le parole senza neppure chiedere. «Erano insieme anche quando ci hanno indicato la strada per raggiungere casa Parker, il giorno che sono arrivata a Danvers.»

Uno sbuffo lento e contrariato, mi fece tornare a rivolgere il viso nella sua direzione.

«È Michael, è un cogl... uno di cui è meglio non fidarsi» si corresse.

Scoppiai a ridere, dimenticandomi per un istante dei miei tentativi di mimetizzarmi con la tappezzeria. «Non devi censurarti a causa mia» lo rassicurai.

Lui abbozzò un sorrisino. «Non lo farei mai» replicò con una punta di ironia. Quando parlò nuovamente però, ebbi l'impressione che nonostante l'atteggiamento distaccato, ci fosse ancora qualcosa che bruciasse nel suo sguardo. «Comunque fammi un favore, Reed» mi disse, tornando a fissare l'ingresso del locale con uno sguardo serio. «Non dire agli altri delle nostre ricerche e, soprattutto, non andare in quel posto».

Non sapevo che idea si fosse fatto di me, ma era stato già abbastanza difficile parlarne con lui, non avevo proprio intenzione di correre da Alice o da Caleb con le nostre teorie.

Prima che potessi anche solo pensare di replicare, Alex mi fermò alzando una mano. «Scusa, dimenticavo che non fai mai quello che ti dico. Quindi, per favore, entra al Blackout il prima possibile, okay?».

Gli lanciai un'occhiataccia di avvertimento, ma per quella sera sentivo di aver combattuto fin troppo, per incominciare una nuova guerra con lui. Mi limitai osservare l'esterno da sopra la mia spalla destra, di Caleb nessuna traccia.

«Dai, riportami a casa» dissi, scivolando lungo il divanetto in pelle, mentre con la mano afferravo l'orlo della mia lunga gonna.

Alex fu più veloce di me. Lasciò una banconota alla cassa, sotto lo sguardo annoiato della cameriera e si avvicinò alla porta tenendola aperta anche per me.

Lo ringraziai un po' a disagio, lanciando qualche occhiata furtiva in direzione del Blackout, mentre raggiungevo la sua macchina. Non volevo rischiare che qualcuno mi riconoscesse, soprattutto perché iniziavo a sentirmi a disagio per aver detto che sarei rimasta a casa con mio padre quella sera. Mentire non è che mi riuscisse poi così male, solo... Solo non ero abituata a sentirmi in colpa per quello.

Proprio in quel momento il mio cellulare vibrò. Istintivamente, lo estrassi dalla pochette, mentre Alex apriva la sua macchina e le luci rispondevano gettando un tremulo bagliore aranciato sul mio vestito.

Da: Caleb Evans
"Ci sei mancata stasera da Roby, tieniti libera per la prossima settimana".

Mi bloccai sulla soglia dell'abitacolo, guardandomi attorno come una ladra. La via era vuota, così come lo spiazzo. Solamente il riverbero della musica ci raggiungeva intermittente, legato all'apertura della porta del pub.

Salii sulla macchina, nascondendomi tra l'oscurità dei vetri e il tessuto nero del sedile.

«Tutto bene, Reed?».

Ad Alex non doveva essere sfuggita la mia espressione tesa.

Feci segno di sì con la testa e mi sottrassi al suo sguardo, fingendo immotivata attenzione alla cintura che stavo allacciando.

Avevo visto Caleb al Blackout meno di cinque minuti prima, quindi o la sua era una frecciatina neanche troppo velata, oppure era una bugia che proprio non riuscivo a capire. E non ero sicura di quale alternativa fossi meno contenta.

Pokračovať v čítaní

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