OLIVIA

Von makebaba

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Avete presente la ragazza introversa e un po' sfigata che va a lavorare per il ricco direttore di un'azienda... Mehr

Elenco dei personaggi
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XIX
Capitolo XX
Capitolo XXI
Capitolo XXII
Capitolo XXIII
Capitolo XXIV
Capitolo XXV
Capitolo XXVI
Capitolo XXVII
Capitolo XXVIII
Capitolo XXIX
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo XXX

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Von makebaba

月が綺麗ですね (つきがきれいです
tsuki ga kirei desu ne

|giapponese | traduzione letterale: la luna è bella, non credi?|


Natsume Sōseki fu il primo a tradurre «ti amo» con questa frase. Il romanziere giapponese era convinto che due innamorati non avessero bisogno di esprimere a parole il sentimento reciproco, ma che esso si potesse trasmettere anche con una frase come «la luna è bella, non credi?»




💎

Un formicolio nervoso s'impossessa delle mie dita spingendomi ad abbandonare il tavolo con la banale scusa di andare in bagno. Dirigendomi fuori dalla sala, sento degli sguardi perplessi addosso che contribuiscono ad aumentare le mie palpitazioni. Fortunatamente, l'aria fresca della terrazza all'ultimo piano del grattacielo che ospita l'Artemisia, allenta leggermente la tensione che mi stringe il petto, permettendomi di regolarizzare il respiro.

La luna piena rischiara il cielo nascondendo le stelle e l'East River si estende sotto la linea piatta dell'orizzonte. Frugo nella piccola borsa che mi sono portata dietro, alla ricerca del mio cellulare e digito mnemonicamente il numero che mi mette in contatto con Parigi.

«Pronto?» risponde la voce assonata di Léon.

«Oh, ti ho svegliato?» domando in tono di scuse. Lèon sbadiglia con la voce impastata dal sonno: «Qui sono le quattro del mattino»

«Perdonami e che...non lo so» comincio a farneticare, destandolo immediatamente dal torpore: «Cos'è successo? È lì?»

«Sì è qui»

Il mio ex fidanzato fa una breve pausa, lo stento muoversi di scatto tra le lenzuola del letto: «Ci hai parlato?»

«No, sono fuggita qui in terrazza come una vigliacca»

«Olivia – mi riprende in tono serio – non fare come al tuo solito. Non sai quello che è successo davvero. Lascia che gli altri ti diano le loro spiegazioni prima di giungere a conclusioni affrettate»

Sentirlo usare il mio nome di battesimo mi provoca ancora uno strano effetto, ma va bene così: «Perché sei ancora qui a parlarmi dopo tutto quello che ti ho fatto?» piagnucolo, con la voce ridotta ad un sussurro.

«Non è colpa di nessuno dei due se il tuo cuore appartiene ad un'altra persona»

«Léon, lo sai che ti voglio bene?»

«Anch'io te ne voglio OliviaJo» lo sento ridacchiare per quel nomignolo che mi ha recentemente affibbiato. Di ritorno dalla California ho deciso di parlargli di me. La sua reazione è stata surreale e lontana mille miglia da quella che mi ero ricreata nella mente, tant'è che mi ha portato ad illudermi che Léon fosse la mia persona, confondendo la gratitudine per amore. La cosa assurda è che un po' lo amo davvero: ma è quel tipo di sentimento che si riserva ad una persona cara, non all'amore della propria vita. Troppo debole per giurarselo davanti a Dio, troppo forte per separarmi definitivamente da lui.

Tuttavia, dopo quella telefonata nulla è rimasto lo stesso e sposarlo mi è sembrato un vile atto egoista. Lèon merita qualcuno che lo adori con ogni singola fibra del suo corpo e non quel surrogato dell'amore che ero disparta a dargli io: «Ti chiamo più tardi, okay?»

«Okay» concorda e riattacchiamo la telefonata contemporaneamente.

È finita così tra di noi: tra un "mi faccio viva io" e "prendo le mie cose e mi trasferisco a casa di mio padre" passando per "devi essere sincera con lui riguardo i tuoi sentimenti" e i miei sporadici ed egoistici "torna a casa" seguiti dai suoi più o meno sensati "non ha senso, ma rimaniamo amici"

Di nuovo in silenzio, alzo lo sguardo verso l'alto e, con il naso all'insù, contemplo la maestosità della luna piena, che da qui sopra sembra spaventosamente vicina e beatamente ignara degli sciocchi problemi che affollano la mente di noi umani, miseri scarafaggi insignificanti rispetto alla complessa vastità del cosmo.

«La luna è bella, non credi?» dice la voce bassa e roca alle mi spalle facendomi sussultare leggermente. Allontano i palmi sudati dalla sbarra di acciaio sulla quale mi stavo sostenendo, voltandomi nella sua direzione.

«Sì, lo è» ammetto, mentre un campanello nella mia testa si attiva, turbato da quella sequenza di parole stranamente familiari. Connor si avvicina verso di me lentamente, con le mani infilate nelle tasche dei pantaloni scuri. Il chiaro di luna rischiara appena i lineamenti scolpiti del suo viso, rendendo la mia mente schiava di quella visione celestiale. È un dato di fatto: gli anni che passano più lo trasformano in un uomo, più rendono giustizia alla sua bellezza.

«Perché sei scappata da tavola?» mi domanda, non appena mi raggiunge
prendendo posto accanto a me vicino la ringhiera. Rimango nella stessa posizione di pochi istanti prima, dando le spalle al panorama e con gli occhi puntati verso l'interno della terrazza: «Dovevo andare in bagno, te l'ho detto» rispondo in tono falsamente disinteressato.

«E da quando il bagno è all'aperto con vista sul ponte di Brooklyn?»

«Che te ne importa? – esclamo lanciandogli un'occhiata irritata– volevo stare un po' da sola, tutto qui»

Connor alza un sopracciglio, scrutando attentamente la mia espressione: «Ci voleva tanto a dirlo?»

«Che cosa vuoi?» sbuffo, seccata dal suo palese tentativo di mettermi in difficoltà.
Le nostre iridi si scrutano a fondo, in una maniera che è difficile da esprimere a parole. Poi distoglie finalmente lo sguardo dal mio, mettendosi a frugare nella tasca interna della giacca come se nulla fosse.

«Te l'ho detto, sono venuto qui perché la luna è troppo bella stanotte per non essere guardata» mi risponde calmo, dopo essersi preso tutto il tempo necessario per estrarre placidamente il pacchetto di sigarette dalla giaccia e portarsene una tra le labbra. Ancora una volta, quelle parole all'apparenza banali mi colpiscono in maniera differente: «Non me ne offri una?»

«Da quando fumi?» mi chiede sospettoso, e con la sigaretta ancora spenta premuta nella la fessura formatasi trai margini della bocca. Inspiro appena, cercando di rimanere indifferente al fatto che dopo due anni sto parlando con lui manco fossimo due vecchi amici al bar.

«Ho ripreso in Centrale, poi Parigi...beh da un po'» dico scrollando le spalle con noncuranza, mentre avvicino una mano verso il pacchetto aperto di Lucky Strike che mi sta porgendo. Mi maledico quando il mio occhio cade sulla fede dorata che gli circonda l'anulare. Eccolo qua, il motivo delle mie stupide lacrime nelle ultime settimane.

«Giusto, Parigi... – constata lui nel momento in cui le mie dita sfilano via una sigaretta e quindi adesso ti sposi anche tu»

«Già, anche io» scandisco, allontanandomi repentina dalla vista della sua fede, la quale mi provoca un senso di nausea. Connor avvicina l'accendino all'estremità della sigaretta che stringo tra le labbra, accedendomela con uno scatto rapido: «Avete già fissato una data?»

Sputo fuori parole acide insieme al fumo: «Vuoi un invito per caso?» non intendevo farlo, ma è più forte di me.

«Scusa, non volevo essere invadente»

«Abbiamo annullato le nozze» dico semplicemente, inalando la nuvola di nicotina sprigionata dalla sigaretta che brucia. Connor distoglie lo sguardo e lo riporta sul fiume nero che si espande sotto di noi, mugugnando un imbarazzato: «Ah...»

È lui, dopo un silenzio sconcertate e diversi tiri di fumo, a prendere le redini del discorso, arrivando al dunque: «Abigail mi aveva accennato che stavi insieme al tizio del bar da un po' di tempo, mi aspettavo una notizia del genere. Ma sapere che hai rimandato le nozze, questo no, non lo credevo possibile»

«Innanzitutto si chiama Lèon il tizio del bar» puntualizzo acida: «E poi, beh, perché non potrei aver cambiato idea? Non mi sentivo pronta a compiere un passo del genere, tutto qui»

Lui annuisce, con le sopracciglia contratte in un'espressione pensierosa, e la sigaretta ormai a metà stretta tra le dita: «Tutto qui? Quindi questo è l'unico motivo, non ti sentivi pronta?»

«Dovrebbero essercene altri?» gli domando in tono di sfida, nonostante dentro io stia letteralmente esplodendo.

«Non è per questa, vero?» m'incalza, indicandomi la fede che orna la sua mano destra.

Colpo di grazia, mi ha smascherata.

La mia espressione dura tramuta facendomi sbiancare. Abbasso lo sguardo sul pavimento di ceramica della terrazza, consapevole di essermi tradita con questo stupido gesto. Connor avvicina due dita sotto il mio mento e lo solleva, costringendomi a guardarlo: «Non devi farti influenzare da questa. Se vuoi sposarlo fallo, ti prego. Ti meriti ogni singola cosa bella che ti sta succedendo»

«Mi stai dando il tuo benestare? Oh, grazie adesso va già meglio» reagisco incredula, guardandolo con rabbia: «Chi ti credi di essere per venire qui, dopo due anni, e darmi consigli su chi sposare? Averlo già fatto non ti rende un esperto del settore»

«Non ti sto dando il mio benestare, Olivia. Non mi permetterei mai. Ho sempre parlato con Abigail di te in questi mesi, pensi che sia stato facile accettare il fatto che la tua vita sia andata avanti senza di me? No, non lo è stato, cazzo. Ma l'ho accettato perché ti sapevo felice ed è l'unica cosa che voglio. Per questo ti dico che – se è lui– a darti la serenità che meriti devi andare e prendertela, senza guardare in faccia nessuno. Sopratutto i fantasmi del tuo passato, sopratutto me»

«Hai chiesto ad Abigail? Tu lo sapevi già?» riesco a dire solamente, con la voce che mi trema dal disappunto. Connor scandisce con decisione ogni singola parola del suo discorso: «Certo, da quando Abbie si è messa in contatto con te non ho fatto altro che chiedere di te»

Gli occhi mi pungono, mentre lacrime rancorose minacciano di uscire: «Perché sei sparito se soffrivi per come sono andate le cose tra di noi?»

«Olivia io...– mormora a disagio, staccandosi appena dalla ringhiera sulla quale è poggiato – non potevo, mi dispiace»

Sono allibita: «Tu non potevi? È tutto ciò che hai dire? – dico parandomi esattamente di fronte a lui – Sai una cosa? Sono una cretina. Ho passato le ultime settimane a piangere, mentre tu sei qui noncurante a sbandierare la tua stupida fede al dito e a farmi sentire un'idiota per aver rifiutato Lèon. Dio, che stupida!»

«Cosa ti ha raccontato Abigail, posso saperlo? Mi ha sempre detto che non parlavate mai di me» domanda, accarezzandosi il mento perso tra i suoi pensieri.

La glaciale indifferenza con cui riassumo tutto, rende l'aria ancora più pesante. Ormai sono questo, un ammasso di apatia incapace di provare emozioni: «Non c'era molto da dire dopo che mi ha detto che ti sei sposato. Mi sono sentita morire dentro e ho annullato tutti i piani che avevo programmato per il futuro» cerco di liquidare frettolosamente la questione, come se tutto ciò non m'importasse.

«Quindi non ti ha raccontato tutta la storia?»

«Non l'ho voluta ascoltare. So tutto ciò che c'è da sapere» taglio corto sbrigativa, facendo un passo indietro. Il silenzio tra di noi è rotto solamente dal suono attenuato della musica proveniente dalla sala sottostante che ospita il matrimonio. Connor mi guarda, ma non riesco ad interpretare la sua espressione: comincia a torturasi la fede che porta al dito, come se gli stesse dando improvvisamente fastidio. Poi, alza gli occhi al cielo, sorridendo amaro: «Olivia, tu non sai proprio niente»

«Uhm, sinceramente non m'interessano i dettagli della tua storia d'amore» ribatto aspra.

«Dovrebbero, invece»

«Cambierebbe qualcosa?»

«Forse niente, forse tutto» risponde semplicemente il ragazzo di fronte a me, intento a fissare lo skyline di New York: «Se solo ascoltassi saremmo già un passo avanti»

La voce assonnata di Lèon che mi implora di ascoltare le ragioni prima di trarre conclusioni mi echeggia penetrante nella testa, facendomi scuotere la testa in segno di assenso: «Ti ascolto»

«Pensavo di averne viste di tutti i colori dopo te e la storia di Linnet, ma mi sbagliavo. Non sapevo che il peggio doveva ancora arrivare. Ero andato in Colombia per allontanarmi da te, per lasciarti il tempo di pensare a noi e invece...»

«Aspetta, questo cosa c'entra con...?» lo interrompo, confusa dal suo preambolo.

«Tutto, Olivia. Tutto» asserisce ed una breve pausa nel suo discorso riempie il silenzio carico di tensione che si è venuto a creare, ma è un'attimo: «Ho conosciuto Pilar lì, faceva la prostituta. Conosci la storia ed è inutile che io mi dilunghi: mi passava informazioni preziose in cambio di qualche ora insieme»

Le sue frasi mi lasciano incredula, portandomi a fermare nuovamente il suo flusso di parole: «Pilar? Non dirmi che– »

Connor mi ignora, concentrato unicamente sul suo racconto: «Conclusa la mia operazione, le ho passato la somma di denaro che avevamo pattuito e sono andato via. Due giorni dopo è stata rapita e imprigionata da alcuni narcotrafficanti che erano risaliti a lei: la spia che aveva fatto in modo che il boss del cartello venisse arrestato. Ho ricevuto la notizia quando sono atterrato a Parigi, per venire da te. Era la mattina del giorno in cui abbiamo ucciso Linnet»

Mi faccio avanti, posizionandomi accanto a lui: «Continua, ti prego» lo imploro a voce bassa. La voce di Connor è sofferente, come se parlare gli costasse uno sforzo enorme: «È per questo che sono andato via dalla tua stanza d'ospedale, Olivia. Non c'è giorno in cui non mi penta di averlo fatto, ma dovevo. Sono tornato a New York per mettere in piedi una squadra di ricerca, dovevo trovare e liberare Pilar a tutti i costi. Non posso più accettare il fatto che qualcuno soffra a causa mia. Il fine non giustifica i mezzi, mai. L'ho capito con te.»

Di getto, poso una mano sul suo braccio, mentre accarezzo con i polpastrelli la stoffa nera della sua giacca: «E cosa è successo dopo?» deglutisco, temendo una risposta che non tarda ad arrivare.

«L'ho trovata mesi dopo. Era tenuta prigioniera dentro una fatiscente prigione in periferia di Medellín. L'ho trovata in condizioni pietose, io non–» si blocca, mordendosi il labbro inferiore con forza. Il suo pomo d'Adamo fa su e giù, trattenendo un turbinio di emozioni dolenti.

«Avresti potuto dirmelo. Sarei venuta con te, lo sai? – gli rispondo, totalmente annientata dal suo racconto – lo avrei fatto, sarei venuta in capo al mondo con te»

Connor allunga una mano verso di me, posandola sulla mia guancia e accarezzandone la pelle con l'estremità del pollice: «È questo il punto: non te lo avrei lasciato fare. Nessuno avrebbe dovuto vedere ciò che ho visto io a Medellín. Soprattutto te, che eri la cosa più preziosa che avevo»

La sua mano ancora poggiata sul mio viso trema in maniera impercettibile, mentre abbandono ogni meccanismo di difesa che mi sono autoimposta: «C-cosa hai visto, Connor?» biascico appena. 

Di tutta risposta, sposta lo sguardo dal mio viso, soffermandosi su un punto indistinto oltre le mie spalle: «Quando abbiamo fatto irruzione per liberarla l'abbiamo trovata legata, in una stanza con una piccola finestra come unica fonte di luce. La costringevano a mangiare, dormire e fare i suoi bisogni nello stesso posto. Mi ha raccontato che, a turno, le guardie la violentavano, abusando di lei nella maniera più brutale – Connor fa una pausa, lasciandomi il tempo di assimilare la crudezza di quei dettagli – Dopo averla liberata era una donna completamente distrutta. Non aveva più nulla della ragazzina spensierata che avevo adescato in quel bordello di Cali. Mi guardava con occhi vuoti e inespressivi mentre in grembo le cresceva il frutto degli abusi che ha dovuto patire»

«Io non–»

Connor continua, nonostante ritornare sull'argomento lo stia dilaniando: «Io mi sentivo responsabile, lo capisci?»

Parlo con la voce rotta dal pianto mettendo in fila parole confuse: «C'era così tanto altro da sapere...io mi sento così in colpa, avrei dovut–»

«Non ti biasimo. Ti ho deluso così tante volte, non potevo immaginarlo»

«Cosa è successo dopo che l'hai portata via da quel posto?» domando, decisa ad andare in fondo alla questione come avrei dovuto fare sin dall'inizio.

«Sono rimasto con lei e l'ho convita a tenere il bambino. Le ho promesso di occuparmi di lui o lei come fosse mio. E è così è stato. L'ho portata nella vecchia casa di mia nonna Rose, in New Jersey, e abbiamo vissuto lì per qualche mese. Le pagavo le cure mediche, la terapia con lo psicanalista, l'ho aiutata a rimettersi cercando di conciliare il tutto con il mio lavoro – al solo ricordo, Connor stringe il bordo della ringhiera talmente forte da farsi sbiancare le nocche – poi è nata lei, cinque mesi fa»

«È una bambina?» dico con la voce ridotta ad un sussurro. Lui apre la giacca, infilandoci una mano per pescare un oggetto dal taschino interno. Ne estrae il portafoglio di pelle, dal quale tira fuori una polaroid sgualcita, riportante in corsivo la scritta Viola sul fondo e ritraente la foto di una bambina addormentata assieme al suo giocattolo. Me la porge ed io rimango a fissarla in silenzio per diversi secondi, ponderando con calma le parole giuste da dire.



«È meravigliosa – dico soffermandomi con lo sguardo sulla fotografia – adesso con chi è?»

«Con la tata qui a New York. Cerco di portarmela dietro adesso che è piccola, ma prima o poi dovrò fermarmi in un posto» afferma, mentre gli restituisco la polaroid che rinfila attentamente nel portafogli.

«E Pilar? Non viene con te?»

La mia domanda lecita provoca una strano bagliore negli occhi di Connor, scuri nel buio della notte. Il bagliore si trasforma in un luccichio e ci metto poco a realizzare che si tratta di una lacrima.

«Quando abbiamo scoperto che era gravemente malata era già tardi, aveva contratto una malattia in quella specie di prigione. È andata via nel giro di poche settimane. Non era la mia compagna ma l'ho sposata per avere la custodia di Viola due giorni prima che–» la voce gli muore in gola e abbassa lo sguardo sulla massa nera d'acqua che scorre indisturbata sotto di noi.  Le mie mani cingono con un istinto naturale le sue spalle e lui ricambia la stretta affondando la testa tra i miei capelli. Connor si lascia finalmente andare ad un pianto liberatorio aggrappandosi a me, con il viso nascosto tra i miei capelli.

Rimaniamo in questa posizione finché lui non decide di  allontanarsi, asciugandosi frettolosamente gli occhi: «Solo allora ho telefonato ad Abbie. Le avevo mentito per mesi sulla mia vita, non avevo il coraggio di raccontarle tutto dato che mi vergognavo troppo per ciò che ho combinato in Colombia. Ma quando Pilar ci ha lasciati, sentivo di aver bisogno della mia migliore amica...e mi dispiace averla sconvolta e anche per tutti i fraintendimenti che ne sono scaturiti»

«Basta tormentarti così Connor» lo zittisco premendogli un dito sulle sue labbra: «Nessuno uscirà mai pulito da questa storia, ma tu hai avuto il coraggio di rimediare, privandoti di ciò che era la tua vita. Non ti resta che andare avanti e vivere per lei e per tua figlia»

Connor annuisce, nonostante il suo viso non sia più poggiato su di me, le sue mani non abbandonando la stretta attorno alla mia vita: «E tu? Perché non vai avanti con la tua vita?» mi chiede con gli occhi ancora velati di lacrime.

«Perché sei tu la mia vita, Connor»

Non risponde ma lascia parlare le mani, che gli volano all'altezza delle mie spalle scoperte annullando la distanza tra noi, e le sue labbra che si poggiano finalmente sulle mie. Ogni atomo della galassia si allinea, riportando ogni cosa nel suo ordine naturale, mentre le nostre lingue danzano insieme, cercandosi disperatamente. Ci ricongiungiamo, senza più confini a dividerci. I bordi non combacianti che c'impedivano di stare insieme sono stati smussati dalla consapevolezza di non poter più fare a meno l'uno dell'altro. Bastava fare qualche passo indentro per avere una visione esaustiva del quadro degli eventi, per ritrovarci.

«Sì, la luna è davvero bella stanotte» gli sussurro all'orecchio, nel preciso istante in cui le sue parole acquistano senso. Le labbra di Connor si curvano in un sorriso, restando a pochi centimetri dal mio viso, con il naso che sfiora appena il mio: «Allora avevi capito cosa volevo dirti»

«L'ho capito solamente adesso» ammetto, tra un bacio e l'altro. Solo ora ho collegato il suo recente viaggio in Giappone con il modo peculiare e delicato col quale ha scelto di dirmi che mi ama.

«I sentimenti si possono esprimere con frasi semplici» sussurra, percorrendo con l'indice il profilo del mio zigomo.

«E se non usassimo mezzi termini?»

Connor avvicina il viso sul mio collo, ispirandone il mio profumo. Sento il suo fiato caldo accarezzarmi la gola, mentre mormora sottovoce: «E allora dimmelo...»

«Ti amo» dico pianissimo, intanto che le sue labbra lambiscono la mia pelle, cominciandola a succhiare avidamente: «Dimmelo ancora» mi dice in tono supplichevole, nascondendo il viso nell'incavo del mio collo.

«Ti amo» ripeto, abbandonandomi alla sensazione di averlo nuovamente su di me. Connor mi solleva da terra, afferrandomi per la vita mentre le mie gambe si incrociano attorno al suo bacino rimanendo scoperte dal vestito. Le dita della sua mano si fanno strada sotto la stoffa satinata, fino a stringere la pelle nuda delle mie cosce.

In un attimo ci ritroviamo fuori dalla terrazza, con lui che mi trascina in braccio all'interno di una saletta privata lungo il corridoio. Sento la pelle fredda di un divano venire a contatto con la mia schiena scoperta, mentre alla luce fioca di una lampada Connor si libera della sua giacca, per poi ritornare su di me.

I nostri vestiti si afflosciano sul pavimento  e le dita di entrambi esplorano il corpo dell'altro, bramandone ogni lembo. Mi ritrovo con lui sopra di me che lascia una scia di baci che partono dalle mie clavicole e indugiano sui miei seni, fino ad arrivare al mio punto più sensibile.

Le sue dita entrano facilmente dentro di me, muovendosi in maniera sapiente e regalandomi una sensazione di piacere che invade ogni cellula del mio corpo. Divarico le gambe, stringendole attorno ai suoi fianchi pronta per accoglierlo. Dopo averlo visto armeggiare nella penombra con una bustina argenta, lo sento penetrare in me.

Mi riempie completamente mentre esce ed entra, il suo fiato caldo mi sfiora il viso mentre posa delicatamente una mano sulla mia bocca per attenuare i miei gemiti che si fanno più intensi. Arriviamo entrambi al culmine: sento la sua punta pulsare dentro di me nel momento esatto in cui le mie pareti si stringono attorno a lui. Quando succede, Connor abbandona stanco la testa sul mio seno. Ansimiamo entrambi con il fiato corto, con il mio petto che si abbassa e si alza velocemente, circondati dalla luce fioca di una lampada da tavolo poco distante.

Il mio cuore premuto contro il suo: era solo questo quello che inconsciamente cercavo nelle strade, nel lavoro, tra le pagine dei miei libri e le note di una canzone stonata suonata dal mio giradischi. Ogni singola parte di me ha sempre cercato solo ed esclusivamente lui.

Benché io sappia che niente sarà mai semplice per due come noi, non ci lascerò diventare le ombre di noi stessi solo per piegarmi all'istinto razionale di condurre una vita tranquilla. Costi quel che costi, non voglio più imprimere nel circolo eterno della mia mente i nostri ricordi felici e vivere solo di quelli. Adesso lo so: che siano belli o brutti, voglio costruirne di nuovi. Con lui.

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