OLIVIA

By makebaba

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Avete presente la ragazza introversa e un po' sfigata che va a lavorare per il ricco direttore di un'azienda... More

Elenco dei personaggi
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XIX
Capitolo XX
Capitolo XXI
Capitolo XXII
Capitolo XXIII
Capitolo XXIV
Capitolo XXV
Capitolo XXVI
Capitolo XXVIII
Capitolo XXIX
Capitolo XXX
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo XXVII

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By makebaba

Flashforward

Stringo il bordo del tavolo di un ristorante elegante. Le ampie vetrate che ne circondano il perimetro ci permettono di godere a pieno della vista della Tour Eiffel illuminata, distante una manciata chilometri da noi. Davanti a me, il piatto colmo di squisite prelibatezze mi fissa ancora intatto.

«Raccontami qualcosa della banda, invece» mi esorta il mio interlocutore, seduto difronte a me.

«Sono passati tanti anni» rispondo cercando di sviare il discorso. Ci siamo promessi di essere completamente sinceri durante questa cena, ma si sta rivelando più difficile del previsto per me. Non credevo che rinvangare il passato sarebbe stato così angosciante.

«Ogni promessa è un debito e poi sono curioso» mi incalza il ragazzo qui dianzi, allentandosi di poco il nodo che gli stringe la cravatta.

«Allora – comincio a dire richiamando alla memoria quei nomi – eravamo in cinque o sei, a parte Iago. Si chiamavano Evan, Santiago, Margherita e Oswald mi pare. Non sono sicura degli ultimi due» ammetto, avvicinando il calice di vino alle labbra.

«I primi li ricordi bene però» osserva lui divertito.

«Ehm sì, per ovvi motivi» mi sfugge, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro.

Lui mi fissa per un breve istante, poi spalanca le palpebre, incredulo: «Non mi dire...»

«Ci sono andata a letto» confesso, mentre le mie guance prendono fuoco.

«Ma non avevi detto di odiarli tutti?»

Allontano la sua giusta osservazione con un cenno della mano, mentre rimetto il bicchiere sul tavolo.

«In realtà non li conoscevo granché bene, alla fine era Iago a vietarci di avere relazioni interpersonali – comincio a spiegare – e con il senno di poi, capisco il perché della scenata che mi fece quando mi beccó con Evan nello scantinato»

Il mio interlocutore alza gli occhi al cielo, sorridendo appena: «Ci credo, era il tuo quasi-patrigno. Dev'essere stato uno shock per lui»

Lo fisso, cercando di decifrare la sua espressione, poi una domanda mi sorge spontanea: «Perché non ti sei ancora alzato e andato via?»

Di tutta risposta, allunga una mano verso di me, intrecciando le sue dita nelle mie: «Non sono geloso del tuo passato, lo sai» mi dice sincero. Cerco di protestare, ma tutto ciò che ottengo sono le sue mani che stringono ancora più saldamente le mie sulla tovaglia bianca del tavolo.

«Non voglio sentirti più dubitare di me» ribatte serio, mentre passa il pollice sul diamante incastonato nell'anello che porto al dito.

«È che mi sembra assurdo che tu-»

«Non hai bisogno di altre conferme – m'interrompe – stai per diventare mia moglie, dopotutto»

💎

Voci indistinte e suoni ovattati, come fossi sott'acqua, si fanno sempre più forti. Vorrei poter spalancare gli occhi e sollevarmi dalla superficie su cui sono distesa, ma riesco a stento a muovere i muscoli delle dita.

«Sì è mossa, guarda!» sento dire da una voce familiare, lontana.

«Oh mio dio» interviene una seconda, più squillante: «Vado subito a chiamare un dottore»

Le mie dita si stringono automaticamente attorno a qualcosa di freddo, un'altra mano, e un rumore di passi frettolosi si unisce al suono degli impulsi elettronici martellanti che rimbombano nello spazio attorno a me.

«Guardi dottore, gli sta stringendo la mano» prorompe la voce femminile, facendosi più vicina.

«I parametri sul monitor indicano una ripresa. È vero, si sta risvegliando» s'accorda la voce serafica di uno sconosciuto.

«Olivia? Mi senti?» comincia a chiamarmi la persona che mi stringe la mano.

Avverto la sua presenza e la sua voce diventa via via più limpida. Serro debolmente le mie dita attorno a quelle ossa gelide e non so quanto tempo passi prima che io riesca a sollevare le palpebre. Le ombre attorno a me cominciano a farsi nitide e strabuzzo gli occhi mettendo finalmente a fuoco le immagini: Connor, chino su di me, ha il viso contratto in un smorfia preoccupata. Le mie iridi si piantano nella sue e la sua bocca si deforma in un urlo liberatorio: «Olivia, grazie a Dio, sei sveglia» gioisce, mentre accolgo frastornata la sua mano sulla mia guancia.

«Connor...» dico con voce flebile, mentre un'altra figura familiare entra nel mio capo visivo.

«Olivia! Ringraziamo il Cielo!» esclama Abigail, guardandomi dall'alto.

Prendo coscienza dello spazio attorno a me: sono distesa su un letto di quella che sembra essere un camera d'ospedale. Le pareti sono dipinte di un azzurro pallido e il mio corpo, ricoperto da elettrodi e un lenzuolo bianco, giace al centro dell'ambiente tra i beep dei monitor. Le finestre, coperte da veneziane di plastica bianche, lasciano passare la luce ma non mi concedono la visuale del mondo esterno.

«Dove siamo?» riesco a dire affaticata. Compiere anche il minimo movimento mi provoca dolori lancinanti che si propagano lungo tutta la spina dorsale. La mia faccia si contorce in una smorfia sofferente e un uomo in camice bianco, mai visto prima, si avvicina a me esaminandomi: «Come si sente, signorina?»

«Male» ammetto, mentre il dottore mi volta le spalle per frugare in un armadietto posto ai lati della stanza. Connor e Abigail si staccano da me, offrendomi la vista del soffitto bianco.

«Nelle sue condizioni è normale che stia così - riprende a dirmi il medico, mentre mi controlla la spalla fasciata - ha perso molto sangue ed è stata in coma per tre giorni. Ma il peggio è passato e la sua scapola tornerà come nuova»

Improvvisamente, una serie di ricordi dolorosi affolla la mia mente, facendomi prendere coscienza della situazione.

«Le somministrerò una flebo di Fentalyn, vedrà che starà meglio» mi spiega mentre un ago mi buca una vena e, nel giro di poco, l'analgesico entra in circolo espletando il suo effetto. Il dolore non mi abbandona, persiste, ma non soffro. L'effetto dell' oppioide mi aiuta a sopportarlo. Il medico si congeda non appena mi vede stare meglio, lasciandomi nella stanza insieme ad Abigail e Connor. É il secondo dei due a parlare, seduto accanto al mio letto, una volta rimasti soli.

«Se vuoi riposare, possiamo andarcene» propone.

«No» mi oppongo, mentre cerco di avvolgere ulteriormente la mano attorno al suo polso: «Non mi avete ancora detto dove siamo»

«Siamo all'Ambasciata Americana, in clinica ad essere precisi» mi mette al corrente Abigail, stando a braccia conserte ai piedi del mio letto. Nonostante l'effetto del Fentalyn, trovo la lucidità necessaria per bombardarli di domande.

Connor mi espone la situazione paziente, ricambiando la stretta della mia mano nella sua: «Non hai idea di quanto ci siamo preoccupati. Sei stata completamente folle ad usare il tuo corpo come scudo, non credo riuscirò mai a perdonarti per lo spavento che mi hai fatto prendere – dice addolorato, ma mi rivolge un sorriso debole quando si ritrova la mia faccia mortificata a fissarlo – In ogni caso, i soccorsi sono arrivati subito e ti hanno fatto diverse trasfusioni prima che ti stabilizzassi»

«Sì, sei stata davvero un idiota a gettarti addosso a questo energumeno – esclama Abigail – specialmente perché aveva il giubbotto antiproiettili sotto la camicia»

Chiudo gli occhi per lunghi secondi, mentre assimilo questo piccolo dettaglio e mi do' della stupida svariate volte, prima di ritrovare il coraggio di guardarli negli occhi: «Mio Dio...» sospiro.

«É andato tutto bene, alla fine. Non potevi saperlo, avremmo fatto tutti lo stesso. Lascia stare Abbie» mi consola Connor, mentre io vorrei solamente sprofondare e lui disegna cerchi immaginari sul mio polso con la punta del pollice.

«Siete da diabete» ci schernisce Abigail, poggiandosi sulla sbarra del letto con entrambi i gomiti, ma non riesce a rimanere seria: gli angoli della sua bocca si piegano all'insù, mostrando uno di quei suoi rari sorrisi accecanti.

«Mi duole ammetterlo – le risponde ironico Connor, rivolgendosi a me – ma dobbiamo anche ringraziarla per aver messo le cose a posto con la polizia francese»

Abbie alza gli occhi al soffitto: «Merito il premio nobel per la pace solo per non aver dato di matto con il Capo della Polizia! Credetemi, non ho mai avuto a che fare con un uomo più tonto di quello»

«Sì certo, il premio nobel per la pace – la prende il giro Connor – e cosa dovrei diventare io? Papa?»

Abigail lo guarda malissimo e una risata sincera, per la prima volta dopo tanto tempo, mi esce dalla bocca. Potrei passare il tempo a guardarli punzecchiarsi e non ne avrei comunque abbastanza. Abigail si unisce al coro di risate e anche lei, mi appare per un attimo la ragazza spensierata e felice che molto probabilmente era solita essere.

«Comunque, per quanto sia divertente discutere con il qui presente Dalai Lama, io ho qualcosa di importante da darti» annuncia l'Ispettrice Walls, mentre fruga nella tasca interna del suo giubbotto di pelle. Caccia fuori un libretto rilegato in pelle che riconosco subito: è il mio nuovo passaporto.

«Ah» esclamo, mentre me lo porge tra le mani. Stringerlo mi suscita strane sensazioni: è tutto ciò per cui ho lottato, ma possederlo rende tutto improvvisamente vacuo e insensato. Cosa me ne faccio, se non posso più riavere indietro la mia vita?

Abigail e Connor mi guardano con apprensione, mentre inizio a sfogliarlo. Le pagine gialle, prive di timbri, portano la mia foto-tessera su un lato. Faccio passare un polpastrello sull'inchiostro fresco con cui sono state compilate le mie nuove generalità e prendo un respiro profondo prima di concedermi finalmente il lusso di leggerle. Quando lo faccio, rimango di stucco:

Josephine Bénédicte Wang

«Josephine Bénédicte...Wang?» esclamo esterrefatta: «È uno scherzo?»

«Bénédicte?» s'inserisce Connor, più basito di me: «Abbie, ma sei stronza? Che nome di merda è?»

«Connor non fare l'idiota. E tu Olivia tranquilla, ti assicuro che c'è una spiegazione! Ci siamo fatti in quattro per questo» mi rassicura Abigail, indicandomi il mio nuovo cognome scritto sul passaporto.

«Perchè mi avete messo il cognome di Martha e Sam?» le domando scioccata, ignorando Connor che continua a imprecare contro il mio ridicolo nuovo secondo nome.

«Abbiamo pensato che portando il cognome dei Wang – ovviamente abbiamo chiesto loro il permesso – tagliare i ponti con il tuo passato sarebbe stato meno definitivo. Volevamo salvare almeno la parte bella»

«Questo non complicherà le cose? Insomma...» obietto.

«L'abbiamo vista in un'altra ottica – si aggiunge Connor – portando questo cognome sarà più facile giustificare la tua presenza a Claire e alle altre persone che incontrerai. Puoi presentarti come sua zia o una lontana parente e non doverti per forza privare di lei. Saresti anche tu parte della della famiglia, se lo vorrai»

«Io non...so che dire» dico rigirandomi tra le mani il passaporto. Rileggo più volte i miei nuovi dati, non capacitandomi di ciò che è appena successo.

Forse la mia vita avrà ancora senso?

«Martha e Sam sono felici, non vedono l'ora di ospitarti a Santa Monica appena ti sarai rimessa in sesto» continua Connor, allegro.

«Frena, frena...» lo ferma brusca Abigail: «Ovviamente tutto ciò comporta delle clausole. Per te l'accesso negli Stati Uniti rimane vietato. Potrai oltrepassare il confine solo una volta all'anno. So che è poco, ma è il massimo che sono riuscita ad ottenere»

Connor mi tira leggermente per il polso, costringendomi a prestare attenzione esclusivamente a lui: «Potrai andare a trovarla per le feste di Natale o per l'estate»

«È più di quanto potessi aspettarmi, davvero» rispondo ancora incredula, guardandoli entrambi con uno sguardo carico di gratitudine.

«É per eccesso di zelo – cerca ancora di giustificarsi Abigail, non sapendo di avermi fatto il regalo più grande che potessi desiderare – con Linnet è tutto risolto, ma non puoi girare indisturbata per l'America come se nulla fosse, è per il tuo bene e per la segretezza di tutto noi»

«Abbie, Connor» li interrompo: «Grazie»

I due si tacitano all'istante, si guardano brevemente negli occhi e poi si gettano addosso a me avvolgendomi in un abbraccio che sa di ritrovata speranza.

«Grazie, grazie!» continuo a ripetere, mentre mi stringono.

«Non devi ringraziarci, te lo sei guadagnato» puntualizza Connor, allontanandosi di qualche centimetro per guardarmi in faccia: «Sei stata incredibile»

«E poi noi manteniamo sempre la parola data, modestamente» aggiunge lei, mentre si stacca da me ricomponendosi. Il cellulare comincia a squillargli nella tasca dei jeans suonando il ritornello di Toxic di Britney Spears. Io e Connor ci lanciamo un'occhiata divertita, mentre lei ci fulmina con lo sguardo: «Non siete simpatici»

«O mio dio, di nuovo il capo della polizia!» sbuffa alzando gli occhi chiari al cielo, quando legge il nome che compare sullo schermo del telefono.

«È meglio se vado. Ah, prima che me ne dimentichi...Olivia, le tue cose sono rimaste al Pigalle. Puoi andare a riprenderle quando vuoi a mio nome» aggiunge, mentre esce frettolosamente fuori dalla mia stanza, salutandoci con la mano.

«Allora, non me lo chiedi?» mi domanda Connor non appena il silenzio scende tra le quattro mura della camera. Sapevo che sarebbe arrivato il momento di affrontare anche questo discorso, ma tutto il coraggio che ho in corpo sembra essere sul punto di abbandonarmi.

«Di restare? No, non te lo chiederò» rispondo leggendogli nel pensiero, mentre tiro verso di me il lenzuolo.

«Lo immaginavo» ammette lui, poggiandosi con le spalle allo schienale della poltrona.

«Non lo farei, non ti chiederei mai una cosa simile. So cosa significhi per te il tuo lavoro e non ti chiederò di seguirmi. Non perché io non ci tenga a te, anzi, ma perché so che non potrei mai potermelo perdonare»

«Ed io vorrei tanto avere la coscienza a posto al punto tale da potermi permettere di abbandonare ciò per cui lotto, sapendo di aver fatto abbastanza. A Cali c'è...io non posso lasciare tutto così. Non è ancora arrivato il mio momento di scendere dalla giostra e credimi quando ti dico che mi odio per questo»

«Amare è anche saper lasciare andare, ricordi?» sussurro, sollevandomi dal cuscino per avvicinarmi a lui. Connor ha gli occhi lucidi e guarda ovunque, tranne che verso di me. Poso le dita sul suo mento, costringendolo a sostenere il mio sguardo.

Lui allontana le mie dita dal suo volto, delicato e le bacia prima posarsele sulle guance calde. Si sporge in avanti, verso me, poggiando la sua fronte sulla mia e posando entrambi i palmi ai lati del mio viso: «Ti amo anch'io, Olivia» dice piano.

Il nero delle miei pupille inizia a fondersi con il verde scuro delle sue e, come una calamita attratta dal magnete, le nostre labbra si riuniscono, scambiandosi un lungo bacio. Sazi ci stacchiamo, dopo un tempo che non so quantificare e con le mani ancora su di me, mi fa la fatidica domanda: «Allora, dove andrai?»

Mi allontano da lui, abbandonandomi con le spalle sul cuscino. Non rispondo subito, ci rifletto su: «Sai...» gli dico dopo un po' «Parigi non è poi così male»

Connor mi guarda sorpreso, mentre aumenta la stretta della mia mano nella sua. Si porta in avanti, staccando il busto dallo schienale della poltrona e poggiando i gomiti su entrambe le ginocchia: «Non ci avrei mai scommesso»

«Dovrò pure sfruttare quella sfilza di nomi francesi che mi avete dato» cerco di scherzare, per stemperare un po' la tensione: «E tu cosa farai?»

«In teoria non potrei dirtelo» risponde, lanciandomi un'occhiata furba.

«Lo chiedo per poterti immaginare meglio» ammetto, stupendomi della sincerità della mie parole, che raccolgono tutto il dolore che provo per come sono destinate ad andare le cose tra noi.

«Devo sbrigare le ultime faccende a Cali. Poi tornerò a casa, a New York. Dopo chissà...»

«New York?» dico facendo una smorfia teatrale: «Mi dispiace gli Stati Uniti sono off-limits per me»

Connor si lascia sfuggire una risata ma poi aggiunge con voce velata di tristezza: «Come fai a trovare il coraggio di scherzare su una cosa del genere?»

«Per non impazzire, Connor»

«Magari, quando vieni a trovare Claire a Santa Monica possiamo incontrarci a Las Vegas» mi propone ad un tratto, con gli occhi che gli luccicano.

Alzo le sopracciglia: «Perché a Las Vegas?»

«Così posso sposarti»

La sua frase mi lascia interdetta, rimango immobile al centro del letto e lo guardo meravigliata, mentre lui mi sorride divertito.

«Poi ero io quella che scherzava sulle cose serie» ribatto, guardandolo male.

Connor non trova il tempo di rispondermi, dal momento che l'infermiera fa il suo ingresso nella stanza interrompendoci.

«Scusate, ma devo medicare la signorina» cerca di giustificarsi, guardandoci con l'aria colpevole di chi sa di aver interrotto qualcosa.

«Faccia pure, signora Mills» risponde cordiale Connor, alzandosi dalla poltrona e piegandosi a terra per afferrare qualcosa. Lo vedo rialzarsi con un borsone verde militare: «Adesso devo andare»

La sola vista di Connor in procinto di andarsene è sufficiente a spezzare qualcosa dentro di me. Averlo vicino, parlargli, scherzare con lui: tutto troppo bello per essere vero. L'incantesimo è svanito e, per quanto mi dimostri forte e sicura di me, la concretezza di questo finale annunciato mi rade al suolo.

«Quindi te ne vai?» lo guardo con rammarico, incapace di nascondere il dispiacere.

«Sì» risponde tetro, mentre si china verso di me per posarmi un bacio sulla fronte. Al lato della stanza, la signora Mills assiste inerme alla scena, in attesa di svolgere il suo lavoro.

«Buona fortuna» mi dice, prima di allontanarsi dal mio letto. Nonostante tutto non mi rassegno e quando è sul punto di varcare la porta gli domando speranzosa: «Ti farai vivo?»

Lui si volta, bellissimo e sfuggente come sempre, con i capelli tirati leggermente indietro e la borsa sulle spalle. Non sorride, ma le labbra si muovono lentamente per comporre un'ultima, singola frase: «Addio, Josephine»

Oltrepassa l'uscio, richiudendosi la porta alle spalle e scomparendo dalla mia vista. Mi dice addio alla sua maniera: senza drammi e dopo avermi strappato un sorriso fino all'ultimo secondo trascorso insieme. Come al suo solito si congeda come se nulla fosse, sparendo tra le strade del mondo. Non riesco a versare neanche una lacrima, rimango ferma sul letto, in balia dell'infermiera mi medica la spalla.

Chiudo gli occhi immaginando Las Vegas, pensando a come sarebbe potuto essere se non fossimo stati noi. Mi figuro i lineamenti del viso dei nostri figli, il portico sotto il quale ci saremmo seduti da vecchi e la mia mano nella sua mentre esalo il mio ultimo respiro. Avremmo potuto davvero essere tutte queste cose, se la vita non si fosse messa di traverso o se fossimo stati solamente più audaci. Alla fine, per quanto il destino possa mettersi contro, siamo noi i responsabili delle nostre scelte. Qualsiasi cosa sia contenuta nella flebo della signora Mills, questa contribuisce ad addolcire la pillola amara della sua partenza e mi trascina in un sonno senza stelle e senza sogni.

💎

Quando mi dimettono dall'Ambasciata, nove giorni dopo, la prima cosa che mi viene in mente di fare è quella di recuperare la mia roba rimasta al Pigalle. Sono le ultime cose che mi sono rimaste e le uniche che ho. Quando le porte automatiche si aprono vengo travolta dal brulicare affannoso degli ospiti dell'Hotel che vanno da una parte all'altra del salone d'ingresso, come scheggia impazzite.

Mi avvicino alla reception, suonando il campanello poggiato sulla pietra scura del bancone e un uomo di mezz'età, vestito con un frac, appare da dietro il vetro domandandomi cosa desidero.

«Sono qui per ritirare degli effetti personali per conto di Abigail Walls» domando gentilmente, mentre mostro il mio documento nuovo di zecca.

«Certo, glieli porto subito» risponde il pinguino in giacca e cravatta, con un accento inglese terrificante.

Ritorna dopo un po' con la mia valigia e me la porge sorridendomi cortese, lo ringrazio e m'incammino verso l'uscita. A pochi passi dalle porte scorrevoli, sento una mano toccarmi una spalla.

Quando mi volto, mi ritrovo davanti Lèon, nella sua mise nera da barman: «Josephine – mi saluta – ti ho vista entrare, non ero certo che fossi tu»

«Lèon, ciao» gli rispondo abbozzando un sorriso, automaticamente guardo i miei jeans e la mia maglietta bianca e comprendo il suo titubare. Sono profondamente diversa dalla donna che ha conosciuto lui, esteticamente parlando: «Stavo andando via – gli racconto, mentre indico la valigia – sono venuta a riprendere le mie cose»

«Volevo scusarmi per l'altra sera. Non sapevo avessi il ragazzo» si scusa, sincero.

«Oh, no. Non è il mio ragazzo e non devi scusarti» mi affretto a chiarire, anche se basta nominarlo per riaprire una ferita che non si è ancora rimarginata. Abbasso istintivamente gli occhi verso il pavimento, a disagio.

«Va tutto bene?» mi domanda Lèon, notando il mio malessere. Mi porto una mano alla fronte, cercando di non venire sopraffatta dalle emozioni «Uhm, perdonami. É che mi sono trasferita qui da poco e non so... sono completamente spaesata, insomma»

«Ti va di bere qualcosa? Offro io» si propone lui, invitandomi a seguirlo al pianobar. Accetto in silenzio e mi vado sistemare sul solito sgabello. Dopo essere sparito per qualche istante dietro il bancone, Lèon ritorna da me con una bottiglia di vetro in mano e inizia a riversarne il contenuto in un calice.

«Uno Château Mont-Redon del 2005» mi spiega, mentre il liquido rosso rimbalza lungo il vetro soffiato del bicchiere: «Due bicchieri di questo e comincerai a vedere le cose da una prospettiva migliore» mi promette, ammiccando.

«Non ti ho vista nell'ultima settimana. Cos'è successo?» mi domanda, scosso da un moto di curiosità a tratti inopportuna.

«Uhm, ero via...in Provenza» mento. Distolgo lo sguardo da lui, come una dilettante e lui mi lancia un'occhiata sospettosa.

«E la tua roba è rimasta qui?» insiste, alzando un sopracciglio e indicandomi con lo sguardo la valigia che mi sono trascinata dietro.

«È complicato» taglio corto, mentre mi scolo anche il secondo bicchiere di vino rosso. Il moro si limita a pulire i bicchieri, guardandomi di tanto in tanto furtivo. Ripongo il calice vuoto sul bancone, spingendolo con due dita all'indietro, verso di lui. Quando decido che ne ho abbastanza, appoggio entrambi i piedi sul pavimento scendendo agilmente dall'alto sgabello.

«É stato un piacere Léon, ma adesso devo proprio andare» gli dico salutandolo con un cenno della mano. Afferro ciò che rimane della mia roba e, mentre vado per voltarmi verso l'uscita, la sua voce mi ferma ancora: «Aspetta!»

Lèon viene verso di me, con un bigliettino incastrato tra l'indice e il medio delle sue dita anellate. Me lo porge e quando lo apro davanti a lui e leggo i dieci numeri in sequenza appuntati sopra, lo fisso con aria interrogativa. 

Lui mi sorride sghembo: «Hai detto di essere nuova, no? Se cerchi qualcuno con cui passare del tempo, anche solo per parlare...»

«Ma di solito non funziona il contrario? Prima si esce e poi...» puntualizzo, ironica.

«Non intendevo quello. Comunque vedila così: non riservo sorprese»

E menomale, direi.

Sorrido internamente, triste e divertita allo stesso tempo per come la vita si prende gioco di me, ma non aggiungo altro: mi limito a piegare il bigliettino e ad infilarmelo nella tasca della giacca di velluto. Lo saluto con un cenno del capo e vado definitivamente via.

All'uscita dal Pigalle, sono accolta da file sterminate di macchine e taxi che si susseguono rumorose. Vengo catapultata nel caos di Parigi, senza sapere dove andare. Sollevo le spalle – in qualche modo farò – e imbocco la prima stradina laterale che mi trovo davanti. Siamo solo io, la mia valigia e il bigliettino che stringo nella tasca.

Non chiamerò mai quel numero.

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