OLIVIA

By makebaba

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Avete presente la ragazza introversa e un po' sfigata che va a lavorare per il ricco direttore di un'azienda... More

Elenco dei personaggi
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo X
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XX
Capitolo XXI
Capitolo XXII
Capitolo XXIII
Capitolo XXIV
Capitolo XXV
Capitolo XXVI
Capitolo XXVII
Capitolo XXVIII
Capitolo XXIX
Capitolo XXX
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo XIX

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By makebaba

Non mi sono mai soffermata a pensare alla vita che avrei voluto, dal momento che ho passato gli ultimi anni a cercare di sopravvivere a quella che mi era toccata. Mia madre, Stephanie Bolws, il fardello più pesante della mia relativamente breve esistenza, colei che mi ha messo al mondo e colei che del mondo si è sempre disinteressata, è morta.

Mia madre non era mai presente alle recite scolastiche. Mi mettevo in disparte ad osservare i miei compagni di classe che correvano ad abbracciare i loro genitori, i quali venivano a prenderli da scuola, trafelati ma felici. Scappavano da lavoro e a volte qualcuno di loro portava con sé un peluche, il giocattolo preferito del figlio, quello che magari aveva perso la sera prima e senza il quale non riusciva ad addormentarsi.

Fissavo la porta di quell'aula chiassosa e desideravo con tutta me stessa che, da un momento all'altro, spuntasse fuori la testolina arruffata di mia madre. Aspettavo invano ogni giorno che fosse lei a venire a prendermi dopo scuola e non quella vecchia zitella della Signora Frack, la nostra apatica vicina.

Fantasticavo sul passeggiare insieme tra le strade di East Point e ci immaginavo fermaci in una di quelle gelaterie dalle mura color pastello, a prendere un gelato artigianale al pistacchio. Il migliore del quartiere, dicevano.

Le sue braccia ossute ma inaspettatamente vigorose, quando era nel pieno delle sue facoltà mentali e non in uno dei suoi profondi periodi di depressione, mi spingevano il petto contro il lavabo del bagno di prima mattina e con le sue mani gracili mi lavava sgraziatamente il viso. Non mi lamentavo, perché era quello il suo modo di prendersi cura di me.

Crescendo ho iniziato a pensare sempre meno alle cose che avrebbe potuto e dovuto darmi e mi sono concentrata su ciò che potevo fare per me. L'ultima volta che mi sono illusa di vederla cambiare è stato con la nascita di Claire, mia sorella, la sua secondogenita. Non è stato altro che un flebile miraggio, una breve parentesi di felicità susseguita da un buio ancora più pesto. Pensavo fosse l'alba di un nuovo inizio, ma era soltanto il crepuscolo: se grazie a Claire la mia vita aveva di nuovo acquistato senso, la sua si era svuotata di ogni significato.

Un degenerare repentino, caratterizzato da ore intere in cui spariva e nottate passate ad asciugare vomito dal pavimento mentre la guardavo liberarsi pure dell'anima di faccia nel buco del cesso.

Ma adesso comprendo e m'immedesimo nel suo desiderio di fuga dalla realtà e dalle responsabilità che la vita ti cuce addosso senza permesso. Vorrei bucarmi le vene con della morfina per sentire questo dolore in ogni fibra del corpo, ma senza soffrire. Star male e non provare dolore: evidentemente, quello che ha cercato lei nella droga. Spegnere il dolore, senza dimenticarsi di esso. Perché sì, non era solamente una ludopatica, era anche una tossicodipendente e solo adesso i pezzi ricompongo il mio quadro degli orrori,  rivelandomi il senso delle ore vuote, della depressione, dei soldi che non bastavano mai, degli ingenti debiti e di Iago.

Non la biasimo, è così che ci si sente quando vivi in funzione di qualcosa ma questa smette all'improvviso di avere senso. Mi sento esattamente così: ho fatto di tutto per salvarla, ma lei è morta e io sono qui con niente in mano ed una condanna che pende sulla mia testa come un'ascia, costretta a sparare proiettili ad una sagoma di legno.

«È morta a seguito di una overdose d'eroina. È stata trovata all'alba da un netturbino in un vicolo cieco di New Orleans, con un ago nel braccio»

La mia mente rievoca il riassunto breve e coinciso di Connor: «Linnet Rogerway l'ha fatta cercare dai suoi scagnozzi. La nostra spia ci ha riferito che non hanno dovuto faticare molto, le hanno dato una quantità spropositata di eroina e...ci ha pensato lei, era in crisi d'astinenza da due giorni. Per quanto poco possa importarti, sono profondamente dispiaciuto. Non sapevo fosse un'eroinomane, nè che volessero farle del male»

«Non lo sapevo nemmeno io, ma avrei dovuto capirlo» ricordo di aver risposto.

I ricordi sono vaghi, ho sentito il terreno tremarmi sotto i piedi, come un terremoto. Avrebbero potuto spegnere il sole e fermare lo scorrere del tempo, prosciugare gli oceani e incendiare i boschi: io non me ne sarei accorta, intenta com'ero lasciarmi sopraffare dal dolore.

«Perché lei?» ripetevo come una cantilena  tra le lacrime, mentre mi graffiavo la faccia e mi strappavo i capelli. Una cosa è certa: quello provato prima non era niente rispetto a questo dolore qui.

Strascichi di quella conversazione continuano a riecheggiarmi nella mente: «Non lo sappiamo ancora con precisione» mi ha detto Connor «Forse Linnet ha sospetti riguardo te e noi dell'Intelligence. Sembra essere un avvertimento nei tuoi confronti, stiamo indagando...capiremo perchè lo ha fatto. Te lo prometto, Olivia. Fermeremo questa donna e il male che sta disseminando»

La foto del cadavere ricoperto dal lenzuolo azzurro, che avevo visto nello studio di Connor, mi toglieva il fiato restituendomi l'ennesima verità.

Di quel pomeriggio non ricordo nient'altro. Ho passato giorni interi in quella stanza, ho abbassato le serrande e mi sono cibata solo di buio. Non volevo mangiare, dormire, pisciare.

Dopo ventiquattr'ore rinchiusa lì dentro, mi hanno ritrovato svenuta sul pavimento: mi sono risvegliata in quello stesso letto con una flebo al braccio. Attorno al mio capezzale Connor, Michael e Maurice hanno vegliato a turno su di me, la scheggia impazzita, per tutto il tempo.

Ho passato una settimana a letto con un ago in vena che mi nutriva al posto mio. Persino Abigail è venuta a controllare un paio di volte come stessi, piena di rimorsi. Avevano tutti paura che mi facessi del male da sola, non parlavo e loro si limitavano a farmi compagnia in religioso silenzio. Fuori dalla stanza, li udivo sussurrarsi animatamente parole preoccupate.

Ma pian piano, giorno dopo giorno, ho iniziato ad alzare le serrande delle finestre un po' alla volta, finché una mattina mi sono svegliata e ho lasciato che la sfolgorante luce del giorno riempisse la stanza. Erano le sei di mattina e dalla finestra ho visto la neve danzare placida per aria, prima di appollaiarsi sugli aghi sottili degli abeti.

Il mondo non si è fermato assieme a me.

Il respiro mi é ritornato regolare e mi sono strappata via aghi e vestiti sporchi con gesto secco. A piedi nudi, sono uscita finalmente dalla camera nella quale si è consumato il mio esilio, la mia catarsi.

Connor, seduto sul divano, ha sollevato lo sguardo dalle carte che stava attentamente leggendo, meravigliato. Senza lasciargli il tempo di dire nulla, ho finalmente parlato: «Sono pronta» gli ho detto: «Ma faremo a modo mio»

Sono passati due mesi da quella settimana buia, ed eccomi qui, a rivangare il passato distesa sul duro materasso della piccola camera che mi hanno assegnato, in uno dei miei rari momenti di riposo.

Talisia la mia compagna di stanza, irrompe riscuotendomi dai ricordi, festosa: «Olivia, alzati, è arrivata!»

Mi tiro su di scatto, con l'adrenalina che scorre nelle vene. Talisia mi afferra una mano, facendomi alzare dal letto e trascinandomi nel piccolo salotto della camera che condividiamo qui in Centrale. Da quando ho messo piede qui dentro, non sono più uscita fuori.

Al centro del piccolo tavolino troneggia una scatola nera, accuratamente sigillata.

«Come hai aperto la tua?» domando incerta, rivolta alla mia coinquilina.

«Devo usare la tua scheda magnetica, sciocca» dice ridacchiando, più entusiasta di me.

Mi porto una mano alla fronte: «Già è vero, che stupida!»

Comincio a frugare nella tasca della mia divisa sportiva nera e avvicino la scheda alla scatola nera di metallo, questa si apre con uno scatto elettronico degli ingranaggi interni ne rivela il contenuto: il mio fucile di precisione personale.

Mentre afferro il bigliettino presente nella scatola, vergato da una grafia familiare, Talisia imbraccia il fucile per provarlo: «Caspita Olivia, un M-K120! Il mio è un reperto bellico in confronto»

Le sorrido mentre apro il bigliettino giallo, leggendolo attentamente:

Sei ufficialmente la benvenuta tra noi, Josephine. Fanne buon uso.
P.s: Non dimenticare l'addestramento di domani.
—C.

Talisia, sbircia il biglietto, spiando dietro la mia spalla: «Ti hanno chiamata Josephine? Che classe!» esclama.

«Non ci posso credere, Talisia» rispondo, richiudendo la scatola: «È lo stesso nome in codice di Nikita»

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