OLIVIA

By makebaba

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Avete presente la ragazza introversa e un po' sfigata che va a lavorare per il ricco direttore di un'azienda... More

Elenco dei personaggi
Capitolo I
Capitolo II
Capitolo III
Capitolo IV
Capitolo V
Capitolo VI
Capitolo VII
Capitolo VIII
Capitolo IX
Capitolo XI
Capitolo XII
Capitolo XIII
Capitolo XIV
Capitolo XV
Capitolo XVI
Capitolo XVII
Capitolo XVIII
Capitolo XIX
Capitolo XX
Capitolo XXI
Capitolo XXII
Capitolo XXIII
Capitolo XXIV
Capitolo XXV
Capitolo XXVI
Capitolo XXVII
Capitolo XXVIII
Capitolo XXIX
Capitolo XXX
Epilogo
Ringraziamenti

Capitolo X

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By makebaba

«Dov'è la seconda uscita?» urla Connor. Ha dovuto alzare la voce perché il frastuono proveniente da fuori è troppo forte. Sono ancora seduta di spalle contro lo stipite del comò e lo guardo spaesata: «La seconda uscita?»

«Diamine, Olivia! La seconda uscita! Tutte le sale private di questo posto ne hanno una!»

«Non lo so...»

Connor sospira spazientito, si guarda intorno alla ricerca di qualcosa, esplora la stanza assottigliando gli occhi. Dopo poco esclama indicandomi una grata di ferro situata in basso, in fondo alla stanza: «Eccola! Dobbiamo passare da lì»

«Ma come fai ad esserne sicuro?»

«L'alternativa è farci trovare qui dalla polizia o di beccarci una pallottola vagante, valuta tu» ribatte acidamente.

«E sia, dannazione!» impreco.

Lo aiuto a rimuovere la grata e, una volta smontata, ciò che si presenta davanti a noi è un orribile tunnel, sul cui fondo s'intravede una luce fioca: l'uscita.

«Andiamo» mi esorta lui, vedendomi titubare dinanzi all'idea di infilarmi lì dentro.

Lo spazio è stretto e mi dà un senso di claustrofobia, tant'è che stringo i denti mentre avanziamo strisciando lungo il passaggio sotterraneo. Connor è il primo a sgattaiolare fuori. L'uscita ci ha condotti sul retro del locale, in una stradina secondaria di periferia poco frequentata.

«Dobbiamo correre via di qui!» mi dice aiutandomi ad uscire fuori dall'angusto passaggio.

«Dammi un minuto» imploro.

Per la seconda volta da quando lo conosco mi libero dei miei tacchi per prepararmi alla fuga.

«Vedo che è un'abitudine» trova il tempo di scherzare lui, mentre mi dà una mano a togliermi l'altra scarpa.

«Sta' zitto» sbuffo.

«Saranno qui a momenti, corri più in fretta che puoi» mi ordina lui, porgendomi una mano per rialzarmi da terra.

Con la sua mano nella mia, vengo trascinata fuori dalla desolata viuzza, in una corsa senza freni. L'adrenalina ha preso possesso di ogni parte di me, sento le mie gambe scattare veloci sulla strada ignorando persino il dolore dell'asfalto che graffia i miei piedi nudi. Dietro di noi è il caos più totale: il suono stridulo delle sirene della polizia taglia l'aria, intervallato da colpi di pistola che piovono a raffica. Ad un tratto, un rumore fortissimo: del fumo avvolge il locale. Sta bruciando. Sembra la scena di un film d'azione.

La cosa che mi lascia sconvolta è la totale indifferenza del vicinato: nessuno si affaccia ai balconi, nessuno pare chiedersi cosa stia succedendo. Ed è in questo momento che mi è chiaro come mai questo quartiere periferico è la sede ideale  per i  traffici illeciti di Iago Moles.

Non so quantificare per quanto tempo ho corso, so solo che ad un tratto le mie gambe - inesorabilmente - cedono. Mi ritrovo per terra in ginocchio, con il palmo della mano che arresta il mio schianto al suolo e con il braccio di Connor che tenta vanamente di sorreggermi. Mi rimetto in piedi, scrollandomi il pietrisco di dosso: «Sto bene»

Siamo usciti fuori dal quartiere e che i fatiscenti edifici  popolari sono stati sostituiti dalle ordinate villette a schiera di una zona residenziale periferica che mi è vagamente familiare.

«Non puoi fermarti adesso, Olivia, siamo quasi arrivati» tenta di motivarmi il mio compagno di fuga.

«Dove?» domando con il fiato corto, poggiandomi a lui. Le mie gambe non ce la fanno più. Sono al limite.

«A Villa Pence, da mio padre»

«Che cosa?» strabuzzo gli occhi in una eccessiva reazione di stupore.

«Lì dentro staremo al sicuro» mi dice, poggiandomi una mano sulla spalla: «Va tutto bene, sei solamente sconvolta»

L'ansia mi assale, sono dinanzi ad un bivio: tornare sul luogo del delitto o venire acchiappata dalla polizia? Suscitare l'ira di Iago o finire in gattabuia con Connor a causa di una bisca clandestina? La testa mi gira, sopraffatta dagli eventi di quella serata, e tutto vortica attorno a me. Cerco disperatamente una soluzione, ma questa non arriva. È il buio a farlo. Sento le gambe cedere nuovamente e il mio corpo accasciarsi al suolo, assieme alla voce della mia coscienza che viene finalmente messa a tacere.

Quando apro gli occhi, un soffitto affrescato è la prima cosa che entra nel mio campo visivo. Mi rigiro tra delle lenzuola bianche, impregnate di un profumo a me del tutto estraneo. Prima che io possa mettermi a sedere e capire esattamente dove mi trovo, una fitta di dolore alle gambe mi blocca e mi fa strizzare le palpebre dal dolore.

«Ce ne hai messo di tempo» sento dirmi da una voce familiare.

Connor è seduto su una sedia di fianco al mio letto. Anche lui non sembra essere messo bene: ha la camicia semi sbottonata, la cravatta slacciata e i capelli, in disordine, che gli ricadono sulla fronte. Sta seduto in una posa scomposta, con le gambe accavallate. Dev'essere esausto anche lui.

Fuori è ancora buio. «D-dove sono? Che è successo?» chiedo voltandomi nel sua direzione, ma anche questo lieve movimento del busto mi provoca stilettate di dolore.

«Te l'ho detto: siamo a Villa Pence. Era il posto più vicino»

L'attacco di panico che ho avuto ha reso i miei ricordi più recenti sfocati e Connor inizia a narrarmi cosa è successo. «Starai meglio domani mattina. Il dolore è dovuto all'acido lattico. Abbiamo corso troppo, e appena è svanito l'effetto dell'adrenalina hai iniziato a sentire dolore e hai perso i sensi. Per fortuna, non eravamo lontani dato che ti ho dovuta portare in braccio fin qui»

«In braccio?»

«Sì, in braccio. Avrei dovuto lasciarti lì?»

«N-no. Mi dispiace. Anzi, ti ringrazio per avermi soccorsa» rispondo in tono di scuse.

Non so più che pensare. Mi osservo attentamente e noto i palmi delle mani graffiati e il mio corpo ricoperto solamente da una vestaglia bianca di seta. La fisso per qualche secondo e poi azzardo timidamente, indicandomi «Io...non avevo un vestito?»

Lui mi guarda spaesato, poi, appena realizza dove voglio andare a parare si affretta a spiegarmi: «Oh, no. Ti ha vestita Paloma, la cameriera. Questa dev'essere una vecchia vestaglia di Linnet»

«Ehm, ecco, io non volevo insinuare nulla. Mi chiedevo solamente che fine avesse fatto il mio vestito e da quanto tempo sto così» cerco di rassicurarlo, salvandoci entrambi da questo momento di imbarazzo.

«Il tuo vestito si è strappato, Paloma te lo ha conservato lo stesso ma...»

D'istinto, mi copro meglio con un lenzuolo. Ricapitolando: non ho più né le scarpe, né il mio vestito.

«Incredibile, sono rimasta senza neanche uno straccio addosso» rispondo allibita, rivolta più a me stessa che a lui.

«Ti posso far avere tutto ciò che ti serve, ma ora riposati»

«Che ore sono? Non posso stare qui!» esclamo.

«Hai dormito si e no un paio d'ore. È quasi l'alba»

«Ma non posso stare qui!» ribadisco testarda. Scosto le lenzuola per alzarmi, ma il dolore mi blocca sul posto.

Connor mi spinge delicatamente indietro sul letto, riportandomi in posizione supina. Prende un' asprina poggiata sopra il comodino alla mia destra e la fa sciogliere in un bicchiere d'acqua, poi con un tono che non ammette repliche mi ordina «Prendi questa e riposa, vedrai che tra qualche ora starai meglio e potrai tornare a casa»

Devo ammettere a me stessa che, quella che mi propone lui è l'unica opzione possibile e quindi, dolorante e depredata di tutti i miei pochi averi, abbandono la testa trai soffici cuscini del letto. Connor spegne la luce, poi si avvicina a me posandomi un bacio sulla fronte.

«Buonanotte» sussurra nel buio della camera da letto.

Le mie dita si aggrappano al bordo della sua camicia semi aperta, «Resta qui» lo imploro, attirandolo maggiormente a me. Non voglio rimanere sola stanotte.

Lo sento inspirare profondamente e rimanere immobile sotto il mio tocco. Dopo un breve momento di incertezza, avverto qualche lieve movimento nell'aria: immagino si stia liberando della camicia. Il materasso del letto si abbassa dolcemente, accogliendo il suo corpo e mi lascio scivolare al suo fianco. Mi accoglie in silenzio, cingendomi la vita con un braccio. Il calore del suo corpo è l'antidoto al mio malessere interiore. Mi calmo concentrandomi sul ritmo dei nostri respiri sincroni e sprofondo in un sonno pesante e senza sogni.

É la luce del sole che passa tra serrande a svegliarmi. Mi rigiro nel letto in cerca di lui ma ciò che trovo è il suo cuscino vuoto. Mi metto a sedere di scatto, l'antidolorifico deve aver fatto il suo effetto, perché riesco a farlo senza troppi problemi. Sulla panca, ai piedi del letto, è poggiata una pila di vestiti perfettamente piegata, con sopra un bigliettino giallo vergato da una grafia fitta e sottile.

Ti ho lasciato dei vestiti puliti e delle scarpe,

spero siano di tuo gradimento.

Ti aspettiamo di sotto per la colazione.

Non volevo svegliarti.

— C.

«Ti aspettiamo?» ripeto a voce alta tra me e me. Lancio il bigliettino sul letto, dopo averlo riletto attentamente, e mi dirigo verso il bagno per lavare via dal mio corpo i segni della terrificante nottata appena trascorsa. L'acqua calda lava via il sangue incrostato sui palmi delle mie mani, sui piedi e dalle gambe. Vorrei poter lavare via anche il dolore. Quando ritorno in camera, mi prendo un momento per fissare meravigliata i vestiti che mi ha lasciato Connor: devono valere una fortuna, non ho mai indossato niente di così costoso. Ripenso con nostalgia ai miei jeans strappati e ai miei anfibi neri, quando mi ritrovo a indossare un tubino verde scuro con le maniche corte e delle Louboutin abbinate. Scivolo dentro quei vestiti e quando mi guardo allo specchio non mi riconosco. Raccolgo i miei lunghi capelli in uno chignon basso e dopo aver lanciato un' ultima occhiata all' immagine della sofisticata ragazza riflessa nello specchio, esco fuori. Sono in ansia per la colazione, ma la presenza di Connor, inspiegabilmente, mi placa.

Al tavolo della sfarzosa sala da pranzo, sapientemente arredata in uno stile classico che gioca con le tonalità del bianco dell'oro, mi accolgono con un sorriso gentile Connor e un uomo di mezz'età, brizzolato e impeccabilmente avvolto in un completo nero.

«Buongiorno» li saluto entrambi, un po' nervosa.

«Papà» comincia a dire Connor,  senza staccare gli occhi da me, «Lei è Olivia Bowls, la ragazza di cui ti ho parlato poco fa»

«Piacere di conoscerla, signorina. Benvenuta a Villa Pence» risponde cordiale l'uomo, poggiando il giornale che stava leggendo sul tavolo imbandito per la colazione.

«Io sono Harnold Pence, il padre di Connor» si presenta.

«Piacere di conoscerla, signor Pence» rispondo con un sorriso tirato, ancora impalata sul ciglio della porta.

«Non startene lì. Vieni a sederti qui con noi» esclama Connor, facendomi un cenno con la mano.

Prendo posto a tavola sedendomi di fronte a padre e figlio e, superato l'iniziale momento d'imbarazzo, cominciamo a fare colazione. Harnold non fa alcun riferimento al motivo per il quale io mi trovi lì e non cerca in alcun modo di mettermi in imbarazzo. Connor avrà sicuramente avuto modo di rifilarli una scusa e lui sembra averlo assecondato senza farsi problemi. Mi domando se il loro rapporto sia sempre stato così, basato presupposto di non porsi troppe domande.

«Dove hai detto che è andata Rogerway?» chiede Connor ad un tratto, mentre è intento a spalmare la marmellata di albicocche sul suo toast.

Il padre indugia per qualche secondo, prendendosi il tempo necessario per finire di masticare la sua colazione:  «È andata da sua madre ieri sera. È rimasta lì tutta la notte: ha detto che si sentiva poco bene. Dovrebbe essere qui a momenti»

Poi, rivolto verso di me, si spiega meglio: «Linnet Rogerway... è la mia compagna»

«Capisco, signore» rispondo, abbozzando un sorriso di cortesia. Non faccio in tempo a concludere la frase una donna irrompe nella sala.

«Buongiorno» esclama la bionda, con una voce stridula.

«Linnet!» la saluta Harnold, girando la testa nella sua direzione.

«Rogerway!» gli fa eco Connor, roteando gli occhi all'indietro non appena la vede.

La donna si avvicina a passo spedito al nostro tavolo, posa le labbra sulle guance del compagno, per poi rivolgersi a me e a Connor: «Buongiorno. Connor, noto con dispiacere che il tuo sarcasmo è difficile da estirpare»

Una strana sensazione si fa pian piano largo in me, mentre le afferro la mano per presentarmi e la guardo per la primissima volta in viso. É molto più giovane di Harnold.

«Ti sta particolarmente bene il mio vestito, anche se ti vedrei meglio in rosso» mi dice sorridente.

Rimango pietrificata al mio posto, incapace di cominciare una conversazione con la nuova arrivata. Dinanzi al mio silenzio, Linnet si volta verso il suo compagno cercando con gli occhi una spiegazione alla mia presenza lì.

Ascolto distrattamente Harnold spiegare alla compagna il mio "essere un'amica di Connor che si è fermata a Villa Pence per la notte" ma la mia mente è completamente annebbiata, persa nell'analisi dei connotati facciali di Linnet. Diversi ricordi piuttosto recenti si sovrappongono gli uni sugli altri, facendo aumentare le palpitazioni del mio cuore. Un'amara verità, alla quale stento a credere, mi è appena stata sbattuta in faccia.

«Io andrei un attimo in bagno» dico alzandomi di scatto dalla tavola, sopraffatta da dubbi e interrogativi. Devo agire immediatamente.

M'infilo nel primo bagno che trovo lungo corridoio, non appena esco fuori dalla stanza, lasciandomi dietro gli sguardi perplessi dei miei commensali. Tiro fuori il cellulare dalla tasca del vestito e compongo un numero che ormai conosco a memoria. Dopo pochi squilli, la voce metallica di Iago, dall'altro capo del telefono mi risponde irritata: «Olivia, cazzo, ma dove diavolo eri finita? Ero in pensiero per te»

«Sto bene, Iago» lo rassicuro frettolosamente. «Mi serve un'informazione al volo»

«Ovvero?»

«Con chi avevi appuntamento ieri sera?»

«Non vedo perchè dovrei dirtelo, sono affari che non ti riguardano» risponde secco.

«Ti ho visto con una persona»

«E quindi? Era pieno di persone lì dentro!» sbotta spazientito.

«Rispondi solamente sì o no»

Dall'altra parte ricevo solo silenzio ma continuo, decisa: «Quella donna con cui parlavi ieri sera al bancone del bar...era per caso Linnet Rogerway?»

«Sì» commenta lapidario, per poi riattaccarmi il telefono in faccia.

Mi appoggio alla parete del bagno, con il fiato spezzato."Stavo cercando una persona" il ricordo della voce di Connor esplode nella mia testa, mettendo tutti i tasselli in ordine. Ecco chi stava cercando Connor ieri notte

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