Lessi nuovamente il biglietto di Haywood, come se non avessi già imparato a memoria tutte le parole - Nel caso in cui avessi bisogno di una famiglia c'era scritto - e, ancora una volta, mi sentii come se mi avessero appena trafitta con un coltello. Prima la lama scagliata nel petto, poi girata al centro del cuore dopo aver trapassato le ossa, infine sfilata insieme ad un mucchio di emozioni.

L'esito della nostra partita terminata.

L'unica che potevamo permetterci di giocare.

«Signorina, sta bene?» 

Sobbalzai quando mi sfiorarono la spalla, quindi mi voltai nel punto da cui proveniva la voce, e incontrai lo sguardo preoccupato della signora anziana seduta vicino a me.

«Sì, sto bene. Grazie.» Abbozzai un sorriso e spostai l'attenzione oltre il finestrino. Fu solo allora che, scorgendo il riflesso del mio viso bagnato attraverso il vetro, capii di aver versato molto più di una lacrima.

Rimproverandomi in silenzio, mi asciugai le lacrime con la manica del maglione di Haywood, che sapeva ancora di lui, l'unico che non gli avevo restituito.

Perché mi stava succedendo questo?

Perché avevo voglia di tornare indietro?

Come mai, invece di sollevarmi, il pensiero di essere alla fine dei giochi mi confondeva?

Avevo preso la decisione giusta, no?

Per una volta avevo messo da parte me stessa per non ferire il prossimo, perché sarebbe successo di tutto e noi non eravamo pronti, e allora perché mi sentivo così sbagliata?

Perché hai fatto anche una cosa terribile. Mi rimbeccò la coscienza. 

Qualcosa che probabilmente non avrei fatto, se avessi saputo del biglietto. Provai a convincermi mentre frugavo nella tasca del giubbotto per assicurarmi che l'oggetto del misfatto fosse ancora lì. Lo tastai, quindi infilai il foglio di carta e chiusi la zip per evitare di perderli.

Provando a domare i sensi di colpa raccolsi lo zaino, che era tra i miei piedi, e aprii la tasca esterna per estrarre una fotografia ripiegata in quattro, un po' troppo consumata dal tempo e dalle lacrime. Sulle mie gambe la lisciai e, quando la guardai, dovetti mordermi il labbro inferiore per non singhiozzare.

Anche le persone forti, possono concedersi di crollare, piccola mia. Ripensai alle parole di mia madre e, istintivamente, accarezzai la sua figura nella foto.

Era stata scattata quando avevo quindici anni, in un piovoso ed umido pomeriggio di novembre. Ricordavo esattamente quel giorno: stavo attraversando un periodo buio della mia vita, a metà tra una crisi d'identità e l'essere schiacciata dal pesante bagaglio delle responsabilità, e siccome tendevo a tenere tutto dentro, alla fine ero esplosa.
La mamma in un primo momento mi aveva rimproverata ma poi, avendo capito tutto, perché le madri sapevano sempre qualsiasi cosa stessi vivendo, mi aveva fatto cambiare e mi aveva portato in un posto immerso nel nulla.
La struttura al centro degli alberi l'aveva ribattezzata come casotto, il suo posto sicuro, il suo rifugio segreto, il luogo dove anche i più forti potevano cedere in silenzio o facendo rumore, pezzo dopo pezzo.

Ricordavo di esser rimasta colpita dalla sua confessione, perché le mamme erano forti e non avevano bisogno di un posto per cadere, perché loro sistemavano le situazioni e non si facevano travolgere dalle stesse, e scoprire quel lato di lei mi aveva reso incredibilmente orgogliosa della sua fragilità.

Quel giorno, Jane, quella donna che per tutti non era altro che la moglie del criminale Aaron Reyes, mi aveva regalato un grande insegnamento, quello vivere sempre le proprie emozioni, di vomitarle fuori e di affrontarle. Indipendentemente da quanto facessero male.

Succederebbe Tutto - H.S.Where stories live. Discover now