67. L'estate non canta più

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"Che cosa fa? Per vivere intendo?"

"Oh... sono di passaggio"


The man who fell to Earth (1976)








«Tilde, per piacere! Stai ferma un minuto, già la mia connessione lascia a desiderare, non ti ci mettere anche tu con il tuo tremolio! Il tuo viso sembra uno di quei quadri a cui sei così disperatamente devota»

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«Tilde, per piacere! Stai ferma un minuto, già la mia connessione lascia a desiderare, non ti ci mettere anche tu con il tuo tremolio! Il tuo viso sembra uno di quei quadri a cui sei così disperatamente devota».

Le parole di nonna Fauste, colte da un pizzicore esagitato, risuonano nelle mie orecchie scarmigliate, punte esattamente da quel tono concitato che dovrebbe istigarmi a farmi smettere. A interrompere quel fremito convulso a percorrermi i nervi dei polsi.

E le sue ciglia mordicchiate da un cipiglio arricciato riempiono lo schermo del mio cellulare, in una severità che di modulato ha ben poco.

Fosse facile.

Una parola a dirsi...

Detto da lei, che si trova così lontana da me a più di quattrocento chilometri di distanza, dallo splendore di quelle vette immerlettate di nuvole bianche e immerse nella bruma, e dagli incanti degli abeti e le loro fronde a baciare il cielo come a volergli fare dispetto. Lassù, dalla sua montagna, non può capire.

Perché mia nonna non c'è.

No... lei non è qui assieme a me, accanto.

Non può sentire i brividi intemperanti scalzati dal cuore, a sbattere come ali inavvertibili di uccellino, smaniose sui contorni silenziosi delle vertebre. O la cortina delle palpebre, le ciglia perlate d'ansia, scosse da un tremore così sbiadito che sarebbe stato sciocco spiegarlo a parole. Cercare di far vedere l'invisibile a qualcuno che, probabilmente, non l'avrebbe mai intravisto.

Non nel modo che avrei voluto io, almeno.

Mia nonna non potrebbe nemmeno adagiare una mano sulla mia scapola, premuta per intero, e percepire il respiro aritmico a cogliermi il fior dei nervi, così scabro da scivolare attraverso un pertugio irrisorio delle labbra anziché dalle narici.

Un'agitazione spasmodica mi divora in un lento declino, e nemmeno lo sfregarmi le guance macchiate di vermiglio — fievoli strinature di sole — mi aiuta a dissipare quel manto oscuro d'inquietudine.

Perché a stagliarmi ritta in piedi ai limiti dell'entrata del Caravaggio ci sono io, con le caviglie tremule, i talloni a picchiettare nervosi per terra e il display del cellulare colto dallo sfarfallio febbrile dei miei movimenti, non lei.

Nell'attesa dei quadri finali, il voto fatidico dopo lacrime di sangue e fatiche titaniche, schiene ricurve sopra i libri e capelli a segare la vista, separando noi dalle tentazioni.

Da una qualsiasi tentazione.

«Nonna... c'ho l'ansia, va bene?!», dalle labbra mi esce un'esclamazione tinta di accento toscano così marcata che lascia sorpresa anche a me per degli istanti che paiono infiniti.

Quando Apollo s'invaghì di AtenaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora