64. Guten tag, Berlin

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"Come sai che ti ama?"
"Perché conosce la parte peggiore di me e le sta bene."

Vi presento Joe Black (1998)








«Fa' attenzione, scotta sulla ceramica

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«Fa' attenzione, scotta sulla ceramica... ecco, prendila per il manico» è il mio timbro tranquillo a smorzare quell'attimo di silenzio, il polso teso, granitico con cui le offro la tazza di tè.

«Ti avevo detto che non lo volevo» risponde lei senza sbavature di sorrisi, ma sempre mordace; un brivido veloce che percorre i miei nervi, abituata ormai a quella sua severità, quella fermezza con cui si rivolge agli altri.

Una lineare solennità che allontana anche quando la sua presenza ti investe a pochi centimetri di distanza.

«E io, infatti, non ti ho dato ascolto. Poi hai rifiutato del caffè, del latte, del cioccolato e della camomilla... non ti sei espressa in merito del tè» pronuncio con l'attenzione a cascare lenta sulle increspature gentili, la forma ellittica ricamata di orpelli argentei.

Per Costanza ho scelto di usare esplicitamente questa tazza, sentendo dietro la nuca a pizzicare che di ghirigori floreali o similori dorati, lei, non se ne sarebbe fatta niente. Avrebbero spiccato troppo. Avrebbero illuminato troppo la sua effigie, e quel suo sguardo ammaccato, in qualche modo ammalinconito, dove righe di luce e file di ombre si divertono a disegnare forme invisibili, scivolando sulla curva delicata delle labbra appena schiuse.

E fra le lamine delle iridi, sbarrate, rilucenti sotto il bagliore fioco della lampada, vi sono intessute parole che altro non bramano se non di essere dette. Graffiano e le vedo, premono e le scorgo... le fanno male e lo sento.

Incastrata in quegli occhi tracciati da vocaboli nascosti e, tutt'ora, incomprensibili, abbasso lo spigolo del mento, calando la cortina delle ciglia sino allo scrimolo delle pupille, socchiudendole per soli pochi istanti. Il petto freme sotto il peso di un sospiro, celere, quasi inavvertibile. Addosso ho ancora i vestiti della cena a casa di papà, non ho avuto il tempo materiale per cambiarmi, giustappena per sfilarmi il giacchetto, il mio e quello di Costanza.

Sono stata attenta, ho prestato accortezza nel districarle piano la stoffa dalle ciocche fini, senza farle male. Poi l'ho fatta accomodare nella mia stanza, dove un piacevole tepore ci ha accolte, attenuando il torpore avviticchiato alle nostre gambe rivestite da calze sottili.

Lei, con indosso quel vestito di velluto a scenderle delicato sulla linea dei fianchi, cobalto a risaltare nel pallido del suo incarnato, sembra una bambola. Così perfetta, così bella, così aggraziata, in ogni spigolo e in ogni incurvatura delle labbra.

Sì, lei avrebbe potuto fingere.

Avrebbe potuto ingannare gli occhi di chiunque con quella sua bellezza marmorea, zigomi cesellati spruzzati di boccioli, e la forma del volto così levigata, precisione in ogni poro di pelle. Con un sorriso che ispira accondiscendenza — una melodia raffinata e pulita se udita da lontano.

Quando Apollo s'invaghì di AtenaWhere stories live. Discover now