55. Indaco

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"È soltanto nelle misteriose equazioni dell'amore che si può trovare ogni ragione logica. Io sono qui grazie a te. Tu sei la ragione per cui io esisto. Tu sei tutte le mie ragioni."

A Beautiful Mind (2001)








Non me ne ero accorta, durante gli ultimi giorni

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Non me ne ero accorta, durante gli ultimi giorni.

Troppo distratta, con i pensieri sollevati su nel cielo, a galleggiare in quell'astrattezza e quel tripudio di sfumature che, con estremo vanto, le nuvole mostrano al mondo intero — prigioniero al di sotto di infinite e crudeli patine di realtà. Troppo con le pupille rivestite di quella parvenza impolverata, grigia, di abisso senza fine — incolore, carezze di malinconia —, congiunta da un filo esile ed evanescente a un segreto foderato da mille e mille aculei.

Assilli piccini, se osservati da vicino, con occhio attento — un tribolo d'ombre appena si fa un percettibile passo all'indietro, mettendo distanza.

E quel segreto, io, me lo trascinavo dietro come un ninnolo. Un ninnolo pieno di spine, fievole e fragile in apparenza, orribile e atroce visto attraverso il vetro della tangibilità.

Durante gli anni — ticchettare lento di lancette e susseguirsi di lunghi inverni e primavere effimere —, ho stretto le mani di tanti mostri, ho donato abbracci a tante ombre, ho riservato intensa cortesia e gentilezza a fantasmi che promettevano baci senza volere nulla in cambio.

Mentivano — hanno ottenuto molto di più, mendicando pezzi di me anche quando altro non v'era che anima pulsante, e ferita, e grondante di sangue e illusioni rotte. Al di sotto di quella pelle dilaniata dalle loro stesse zanne, dai loro stessi artigli.

E la nascondevano bene, quell'efferatezza aberrante, oltre quell'identica premura che io non ho mai mancato di riservare a loro, attraverso orpelli di sorrisi. Ingannano meravigliosamente i sorrisi.

È proprio con i sorrisi che sono riuscita a sorreggere quel segreto troppo grande, sostenuto da scampoli di artefatta gioia e steli di menzogne.

Non me ne ero accorta, nemmeno mentre passavo continuamente davanti a specchi, superfici cristalline e vetri riflettenti — circostanze perfette per potermi ammirare da ogni angolazione, orlo dopo orlo, una scheggiatura proprio lì, spigolo dopo spigolo, un angolo ammantato da una fosca ragnatela, filamenti di parole taciute.

Troppo assorta, con la coscienza lentamente a sfumarsi con un pennello tutto suo, ad ascoltare quale rumore potesse mai avere il silenzio. Ed era qualcosa di unico, eteroclito, che strideva negli echi delle mie orecchie, lo strepitio di filo spinato che si inerpicava dentro di me, scavando di più, sempre di più, affondando nella pelle.

Bramando altro sangue, altra sofferenza. Un battito in meno, respiro mancato.

Filamenti caliginosi che attorcigliavano, stringevano, tremebondi al più fioco fremito di ciglia, portando alla decadenza — piano piano — quella gioia nera racchiusa nelle iridi di Leonardo, e donata a me, con amore.

Quando Apollo s'invaghì di AtenaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora