ii. invidia

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D O C 

Tardi, sempre troppo tardi. Chiuse gli occhi portando le braccia di fronte al viso, quasi che quel gesto potesse effettivamente ridurre l'impatto con l'autovettura. Non cercò di scostarsi, complice lo stupore del vedere dopo giorni – mesi, anni – un fattore diverso nell'equazione sempre uguale: se c'era una macchina, doveva esserci anche un'autista.

Forse.

Deglutì febbrile saliva e bile, trattenendo il respiro ad inseguire nel petto l'accelerato battito cardiaco. Il suono assordante dei freni si insinuò fin dentro le ossa del ragazzo, e quando pensò fosse giunta la fine...

...sentì lo spostamento d'aria causato dalla vettura, ed il boato del metallo ad incrinarsi quando l'auto si schiantò contro il lampione dalla parte opposta della strada.

I fanali si spensero con un ultimo tremolio incerto. Doc battè rapidamente le palpebre cercando di riabituare la vista all'oscurità, ancora immobile laddove la macchina l'aveva evitato. Cielo Beato. Portò una mano al cuore cercando d'evitarne concretamente il tentativo di fuga, attendendo che l'adrenalina scemasse per smettere di vibrare come un maledetto diapason. Il fumo s'intrecciò alla nebbia, scuotendo le sottili spalle di Doc in convulsi colpi di tosse. Cosa... cos'era appena successo. Cosa doveva fare. In una reazione automatica quanto fallace, si guardò attorno sperando che dall'oscurità sbucassero i soccorsi, o almeno dei curiosi attirati dall'incidente. No? Niente? Quindi tocca a me? Cercò di pensare a cosa dovesse fare in situazioni simili, ma l'unica cosa che ricordava chiaramente delle lezioni seguite a scuola guida, era di aver pensato che se si fosse trovato nella condizione di dover prestare soccorso ad un conducente ferito, l'avrebbe sicuramente fatto morire. Non lasciato, morire: ci avrebbe provato – e l'avrebbe ucciso provandoci, ma quello era un dettaglio secondario. Non aveva mai considerato realmente l'ipotesi che potesse capitare a lui, e se in un contesto normale si sarebbe trovato in difficoltà, quello in particolare rasentava la crisi isterica. Inumidì le labbra, la mano a scuotere l'aria cercando di ripulirla dal fumo. «...ehi»? Si avvicinò alla lamiera mantenendo una cauta distanza di sicurezza – non ricordava di aver mai assistito ad un incidente, ma era sicuro che nei film le macchine tendessero ad esplodere -, strizzando le palpebre per cercare di mettere a fuoco l'autista. Era...morto? Dio, ti prego, no. Per favore, no. «c'è -» Corrugò le sopracciglia, gli occhi a saettare dal volante al sedile.

Vuoto. Che fosse stato sbalzato nell'impatto? Drizzò la schiena ed osservò il parabrezza, crepato ma intatto. Represse un brivido di pura inquietudine: tendenzialmente non credeva ai fantasmi, ma a quel punto tutto sembrava possibile. Incrociò mentalmente le dita supplicando si trattasse di un amichevole Casper di quartiere. Insomma, doveva per forza capitargli una Samara posseduta? Non era già abbastanza disgraziato di suo? «- nessuno?»

«ZOMBIE!» Forse no; non c'era limite al peggio.

Scattò istintivo all'indietro, evitando così d'un soffio il fendente diretto alla sua testa. «cosa-» Sta succedendo.

«LO SAPEVO!» Un altro passo laterale, gli occhi spalancati in direzione della sagoma scura apparsa al proprio fianco. La mazza, l'oggetto misterioso che aveva già mirato a decapitarlo, squarciò imprecisa l'aria fra loro, costringendo Doc ad arretrare ulteriormente. Occhi spalancati, una stilettata d'adrenalina ad ammutolire le contusioni precedenti rendendo ogni movimento aguzzo e veloce. «cosa stai -» «NON MI AVRETE MAI» Un altro colpo alla mascella; qualcosa di metallico gli graffiò la guancia facendolo imprecare fra i denti. «di cosa stai -» irritato, allungò un braccio per cercare di afferrare un'estremità della mazza così da bloccare l'offensiva e, possibilmente, disarmare lo squilibrato di turno. Non era il suo primo rodeo, quello. «parlan- AHIA!» mollò di scatto la presa sull'arma portando sofferente il palmo di fronte agli occhi, lasciando sfuggire dai denti un cupo ringhio alla vista del sangue. I pezzi metallici incassati nel bastone luccicavano scarlatti sotto la pallida luce del lampione, gocciolando densi al suolo: una maledetta mazza chiodata? «oh...oh dio...» un bisbiglio sottile giunse dal malvivente. Più del tonfo della mazza caduta al suolo, fu il cambiamento nel tono dell'altro a far sollevare lo sguardo di Doc dalla propria mano. Dovette reclinare il capo per incrociarne gli occhi, colmando così la decina di centimetri che li divideva. Nulla di stupefacente nel fatto che il suo interlocutore fosse più alto di lui; poteva anche non ricordare il nome del suo compagno di banco del liceo, ma Doc sapeva di essere sempre stato il più basso della classe. E della scuola, ma quella era un'altra storia. «è – è sangue? Oh, dio» A ricambiare l'occhiata poco amichevole di Doc, c'era un ragazzo dall'aria mortificata e le mani alzate in segno di resa. Lo vide stringersi il labbro inferiore fra i denti, ed alzare poi un dito per indicare la mano ancora sanguinante. «quindi non...non sei uno zombie?» Sul serio. Sul serio. Doc battè lento le palpebre, soppesando il ragazzo in un denso silenzio inquieto. Se avesse smesso di parlare di zombie, avrebbe persino potuto passare per un ragazzo ordinario, con quei suoi troppo grandi abiti pieni di tasche, i disordinati capelli mori raccolti in un codino sopra la testa, e l'espressione innocente di chi non aveva assolutamente appena cercato di uccidere qualcuno. Una vera fortuna che Doc avesse passato tutta la propria vita a lottare contro le apparenze; anime meno ciniche di lui avrebbero potuto farsi fregare dall'onestà esibita dallo psicopatico in kaki, per poi essere accoltellati alle spalle quando meno se lo aspettassero. Prese un profondo respiro atto a racimolare la (assente) calma interiore di cui necessitava in quel momento, optando per l'unica risposta sensata che un quesito del genere meritasse: un dito medio alzato nella sua direzione. «santa padella! scusa» Pensava davvero che delle scuse potessero bastare? E chi diceva santa padella nel ventunesimo secolo? Strinse l'interno della guancia fra i denti, le palpebre così assottigliate da lasciare solo una fenditura azzurra da cui scrutarlo. «perché avrei dovuto essere uno zombie.» una domanda retorica a cui l'altro, tastandosi le tasche dei pantaloni da paracadutista alla ricerca di solo il Signore avrebbe saputo dire cosa, decise invece di rispondere. Gli rivolse un sorriso sghembo ed un'alzata di spalle, arcuando un sopracciglio scuro come se la replica fosse stata scontata. «perché no?» aveva almeno un centinaio di motivi per il quale no, ma il ragazzo non si meritava nessuna di quelle spiegazioni. Inoltre, c'erano logiche contro le quali era impossibile vincere, e Doc non scendeva in campo per combattere guerre perse in partenza. Misurava le proprie parole al grammo, Doc; una di troppo, ed entrava in overdose. «ho un, uh, cerotto – ti sei fatta molto male?»

7sec | Sette Secondi Alla Fine Del MondoWhere stories live. Discover now