.𝟛𝟡. (𝕡𝕒𝕣𝕥𝕖 𝟚/𝟛)

Comincia dall'inizio
                                    

In quel silenzio quasi opprimente, infatti, sembrava come se stessi urlando a sgarciagola.

Lei aprì la bocca per dir qualcosa ma il suo intento fu reso vano nel momento in cui, in quel salotto, apparve la figura sinuosa e slanciata di mia sorella Devana che guardò entrambi con ancora lo sguardo assonnato.

«Che sta succedendo?» chiese, sbadigliando.

Inara la guardò con un sopracciglio sollevato e incrociò le braccia al petto. «A te cosa sembra? Sto cercando di convincere tuo fratello a farsene una ragione per quanto ha perso.»

Mia sorella volse immediatamente lo sguardo su di me e i suoi occhi azzurri entrarono subito in contatto con i miei rossi.

La sua espressione facciale emanava serietà e, a tratti, mi parve come che lei volesse trasmettermi la consapevolezza che capisse esattamente come dovevo sentirmi in quel preciso momento.

Non disse nulla per un lungo periodo di tempo nel quale si limitò semplicemente a guardarmi dritto negli occhi, dopodiché, senza distogliere lo sguardo dal sottoscritto, si rivolse ad Inara, dicendo: «Lasciaci soli».

L'eterna increspò le labbra e, alla fine, acconsentì, facendo esattamente come mia sorella le aveva chiesto di fare: se ne andò senza aggiungere altro.

Aveva compreso che non sarebbe stata di alcuna utilità in quella stanza.

Quando chiude la porta principale di quelle due camere collegate l'una all'altra, sospirai sonoramente e mi lasciai cadere sul pavimento, strisciando la schiena contro il muro.

Mi portai le gambe al petto e vi posai la fronte sulle ginocchia mentre un vuoto incolmabile si espandeva a macchia d'olio dentro me.

Devana si avvicinò a me e si sedette al mio fianco senza però aprir bocca.

Ero abbastanza sicuro che non sapesse nemmeno lei cosa dirmi in una circostanza del genere.

Passarono le ore, lo notai dalla luce che iniziava ad illuminare quel luogo buio e desolato.

Il sole stava iniziando a sorgere come ogni mattina.

Fu allora che mia sorella iniziò a canticchiare una canzoncina che nostra madre, quando eravamo dei bambini, cantava molto frequentemente.

Diceva sempre che, quella melodia, ci avrebbe fatto sentire sempre vicino a lei nei momenti più bui della vita che ci attendeva.

Chiusi gli occhi e quello fu l'errore più grande che io potessi fare: ogni volta che lasciavo che le palpebre mi si chiudessero, il viso sorridente di Astraea mi appariva davanti proprio come se fosse reale.

Ogni centimetro, ogni dettaglio del suo viso e del suo corpo era uguale alla realtà.

Lei mi si avvicinava radiosa e mi diceva che mi amava.

Mi prendeva per mano e mi invitava a correre con lei in una distesa di fiori variopinti, sotto la calda luce del sole che non era più riuscita a veder sorgere.

Rideva, producendo un suono che non avrei mai potuto eliminare dalla mia memoria nonostante ci volessi provare disperatamente.

«Quando morì Sekhmet fu come rimanere sola al mondo» iniziò col dire mia sorella.

Senza sollevare il capo dalle ginocchia, voltai il capo quanto bastava per vederla con la coda dell'occhio.

Devana guardava un punto indistinto davanti a sé di quella camera dove vi era il conflitto tra luce e oscurità.

Anche lei aveva le braccia strette intorno alle gambe che erano vicine al suo petto.

«Mi sembrava di star per impazzire e, per un momento, avevo avuto il vago sospetto che tutto quel dolore sarebbe stato davvero in grado di farmi perdere il nume della ragione» riprese a dire, sospirando sonoramente e guardando non so cosa con aria nostalgica e con gli occhi carichi di tristezza. «Tutta quella luce che aveva illuminato il mio mondo quando lui era al mio fianco sembrava essersi spenta all'improvviso, lasciandomi in un luogo buio e freddo nel quale non volevo starci. E sai quale fu la cosa peggiore?» domandò più a sé stessa che a me.

Strinse forte le labbra carnose, fino a ridurle in una fessura quasi invisibile.

Era strano non vederle incurvate in un sorriso malizioso ma, arrivati a quel punto, iniziai a sospettare che quell'aria da dura fosse solo una corazza dietro la quale si trincerava.

La ascoltai in silenzio mentre la sua bocca riprendeva a parlare. «La cosa peggiore fu sapere che mi attendevano millenni di vita mentre a lui tutto ciò non sarebbe stato più concesso. Io avrei visto le stagioni passare, avrei visto i fiori colorati trasformarsi in ramoscelli senza vita e coperti da strati di neve bianca. Avrei continuato a vivere senza di lui e non importava quanto desiderassi raggiungerlo, perchè sapevo che non sarebbe mai accaduto: una Divinità non poteva morire a meno che non venisse uccisa da un Eterno» arricciò il naso, leggermente infastidita. «Bhe, sappiamo entrambi che allora non fu assolutamente contemplabile un'opzione del genere dato che l'unica Eterna disponibile era stata fatta assopire per evitare che desse di matto.»

Appena affermò una cosa del genere, scoppiò a ridere di gusto.

Sembrava quasi che avesse raccontato una barzelletta.

Tuttavia, non appena terminò di ridere, il suo sguardo tornò serio e malinconico.

«Come hai potuto convivere e accettare tutto ciò?» le chiesi, quasi in un sussurro. La mia voce era spezzata da un pianto che faticavo a trattenere.

Devana sorrise amara e mi guardò con tenerezza e dolcezza. «Non l'ho mai accettato e tutt'oggi non mi è possibile farlo» ammise. «Cerco ancora di trovare la tanto sognata e desiderata pace.»

Sentii una fitta dolorosa al petto e quasi faticai a credere a ciò che le mie orecchie avessero appena udito.

Non riuscivo a credere che quel grande dolore che aveva provato mia sorella non se n'era mai andato via realmente e, in quel momento, non potei fare a meno di domandarmi come avessi fatto a non notarlo prima.

Era lì, proprio sotto i miei occhi ma non ero mai stato abbastanza attento per vederlo riflesso negli angoli più remoti delle sue iridi azzurre.

Lei stava soffrendo da più di quattromila anni ed io avevo mai sospettato assolutamente nulla.

Ma, del resto, di che mi sorprendevo?

Sapevo perfettamente quanto Devana avesse amato Sekhmet, il Dio delle acque, e quanto si era sentita distrutta nel momento della separazione definitiva, spezzata da un dolore insopportabile che le rendeva quasi impossibile continuare a respirare.

Io, in quel momento, stavo provando il suo stesso senso di perdita e stavo vivendo sulla mia pelle l'impotenza di non poter far nulla per riavere al mio fianco Astraea.

Delle lacrime roventi fecero capolino ai miei occhi e, questa volta, non cercai di impedir loro di sgorgare copiose sul mio visto: lasciai che queste uscissero fuori e mettessero in mostra tutto il mio dolore e il mio senso di impotenza.

Piansi.

Piansi.

E piansi ancora.

Piansi come non avevo mai pianto nella mia vita e, quando il dolore divenne insostenibile e difficile da sopportare, finii anche per urlare.

Sembravo un bambino da come singhiozzavo ma ciò non mi importava.

Avevo perso la mia unica ragione di vita.

«Perché? Perché doveva andar così?» domandai, furioso, a mia sorella.

Devana mi si avvicinò ancor di più e mi costrinse ad appoggiare il capo sul suo petto mentre lei mi abbracciava proprio come faceva quando eravamo bambini e scappavamo dai mostri della nostra infanzia.

«Shhh» disse, accarezzandomi i capelli corvini con le sue delicate mani. Io mi accovacciai al suo fianco, singhizzante. «So che è difficile, fratellino, ma devi cercare di mantenere un minimo di luciditá in tutta questa faccenda. Non puoi permetterti di perdere la testa.»

Non potevo fare ciò che mi era appena stato detto.

Non potevo proprio.

«Tu e Astraea tornerete a stare insieme» continuò a dire. «C'è sempre un modo per raggirare il Fato e beffarsi di esso.»

In quel momento, in tutta onestà, non mi venivano in mente molte opzioni affinché potesse accadere ciò che lei mi aveva appena rivelato.

«Il destino non è mai immutabile, ricordalo sempre.»

(...continua...)

ASTRAEA "Il sangue degli Eterni"Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora