XII-Ex abrupto.

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Fin da piccola, ho sempre apprezzato la stagione autunnale: la pioggia che crosciava sui tetti di Dunkeld, il cielo plumbeo e denso di nubi, gli alberi spogli e vulnerabili.

Uno scenario così sconfortante e disabitato da risultare intrigante ai miei occhi. La bellezza della malinconia, della solitudine naturale delle cose, risultava essere per me come miele per le api.

Continuai a camminare per la strada, costeggiata da piante ormai secche e foglie crepitanti. Presa da un impulso d'indipendenza, avevo scelto di abbandonare la villa di Morpheus. Un luogo caldo, sicuro e nel suo piccolo accogliente. Ma cosa mi era venuto in mente?

Nonostante vari dubbi sul mio imminente futuro, sentivo di aver compiuto la scelta giusta. Morpheus e Felix avevano ragione: dovevo smetterla di piangermi addosso ed agire. Inoltre, benché il discorso di Felix mi fece capire quanto io fossi importante per lui, non credetti che per Mopheus fosse la stessa cosa.

Il mio obiettivo, seppur neonato ed incerto, era investigare sulla scomparsa della zia e perché no, nel frattempo trovarmi un posto per dormire. Andare dalla regina era l'ipotesi più accreditata, ma non sapevo come poterla contattare.

Innanzitutto, pensai che fosse saggio lasciare l'isola di Skye e raggiungere Dunkeld, affinché potessi tornare nella mia vecchia casa alla ricerca di indizi riguardanti la scomparsa di Cassandra. Ma per lasciare l'isola, dovevo attraversare il ponte automobilistico, e non sapevo come fare: non possedevo una macchina, tanto meno qualcuno che potesse accompagnarmi.

Dopodiché, se fossi riuscita a compiere questo mio primo obiettivo, avrei trovato un modo per giungere ad Edimburgo e contattare la regina tramite quel puzzolente lago che attraversai in precedenza. Pensai infatti che fosse il metodo più sicuro e ovvio che conoscessi, nonché l'unico.

Mentre rimuginavo sul da farsi, i raggi tiepidi ed incerti del sole, scaldarono il mio viso. L'alba era sorta ed io cominciavo ad avvertire un certo senso di fame.

Infilai le mani nelle tasche della giacca nera, alla ricerca di qualche sterlina. Trovai qualche banconota stropicciata e due monete. Potevano bastarmi per il cibo di quella mattina, ma non per il viaggio di ritorno.
Sbuffai, maledetti soldi. Mi trovavo davanti ad un bivio: comprare la colazione o cercare di offrire qualche spicciolo al primo automobilista incontrato, nella speranza che decidesse di scorrazzare qua e là una sedicenne inesperta.

Alla fine, concordai su me stessa riguardo l'importanza della colazione ed entrai nella prima tavola calda utile. Al mio passaggio, la campanella appesa al di sopra della porta tintinnò. L'ambiente intorno a me sembrava essere fermo agli anni cinquanta del novecento, dove alle pareti erano appese foto di Elvis Presley e grandi tavoli colorati riempivano l'abitacolo.

L'uomo al bancone non si degnò di rivolgermi un'occhiata ed io mi sedetti ad uno di quei tavoli pittorici, addossato sulla finestra dal vetro sporco e polveroso. Poche altre persone aleggiavano intorno a me, come fantasmi di un'altra epoca.

Una ragazza fasciata in una divisa anni cinquanta, slittò con i suoi pattini verso di me.
«Cosa ti porto, tesoro?» pronunciò questa domanda senza guardarmi direttamente, ma con gli occhi fissi sul taccuino che teneva in mano, la penna pronta a scrivere ogni mio volere.

«Il meno caro possibile» risposi senza dare neanche un'occhiata al menù, fidandomi del parere di quell'anonima figura. Lei annuii distrattamente e così com'era venuta, slittò velocemente verso il bancone.

Mi guardai intorno, picchiettando con le dita la superficie scorticata del mio tavolo. Il colore si stava man mano sgretolando e le foto di Elvis sembravano consumate dal passare del tempo. Tutto in quel luogo sapeva di vecchio e dimenticato, a partire dalle stesse persone che lo abitavano.

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