II-In pectore.

93 26 24
                                    

Quando arrivò la pausa pranzo, quella strana e opprimente sensazione tornò a farsi spazio nella mia pancia, contorcendomi le budella. Avevo paura di dovermi scontrare ancora con Juliet e il suo patetico gruppo.

Le odiavo per le cattiverie che ogni giorno mi riservavano, ma soprattutto avevo iniziato a odiare me stessa per non essere capace di difendermi. Ogni volta che mi trovavo ad essere l'oggetto dello scherno, non riuscivo a tirare fuori le unghie.

Non perchè provassi uno strano piacere ad essere torturata da quelle affilate parole, ma poichè una piccola parte di me era convinta che fosse colpa mia.

Era colpa mia se non avevo saputo farmi volere bene, se non avevo costruito delle amicizie, se vivevo con una stramba quarantenne.

Afferrai i miei libri e seguii il flusso di studenti diretti alla mensa. Più volte avevo desiderato di essere invisibile, potermi nascondere da tutti quegli occhi che mi scrutavano con curiosità. Era una cosa che bramavo nel profondo.

Arrivata in mensa, la folla di persone che mangiava e chiacchierava amabilmente mi spaventò. Trovarmi in luoghi affollati non mi era mai piaciuto, mi sentivo intrappolata.

Ad uno di quei tavoli notai immediatamente Bruce Finnegan, un ragazzo dell'ultimo anno per cui avevo una cotta. Il mio cuore fece una capriola e l'istinto di correre via si presentò ancora una volta.

Era strano come io reagissi davanti alle persone che destavano il mio interesse: mentre la maggior parte delle ragazze cercava di farsi notare, io volevo soltanto passare inosservata e covare i miei sentimenti di nascosto.

Spinta dalla fame, repressi la voglia di scappare a gambe levate e mi avviai verso la fila di persone intente a comprare il proprio pranzo, facendo attenzione a non far cadere neanche per sbaglio lo sguardo su Bruce.

Cominciai a cercare i soldi nella tasca anteriore del mio zaino, ma venni interrotta da una spinta che mi fece sbilanciare. Caddi a terra e tutti i miei oggetti si riversarono sul pavimento. Il polso mi procurava delle piccole fitte di dolore, ma non ci feci molta attenzione.

«Oh, scusa» sussurrò Juliet con falsa innocenza. Senza guardarla, cominciai a raccogliere i miei oggetti, ma lei diede un calcio ad ognuno di essi, allontanandoli. Cercai di ignorarla, ma mi sentii sollevare per il bavero della giacca appartenente alla divisa scolastica.

«Quando ti parlo mi devi guardare, strega» affermò la ragazza con disprezzo.
Al suo seguito, come sempre, erano comparse Pauline e Jeanette con dei vassoi fra le mani, intente ad osservare la scena in religioso silenzio.

«Non sono una strega» biascicai con lo sguardo verso il basso.
«Sì che lo sei» ribatté Juliet.
«Sei strana, porti sfortuna e in più hai i capelli rossi. Sei un fottuto demonio!» mi urlò contro con cattiveria e divertimento.

Era impossibile non ascoltare le sue affermazioni, tuttavia nessuno dei presenti era intervenuto in mia difesa. Tipico degli esseri umani: se una situazione non riguarda te in particolare, non immischiarti.
Come diceva Dante?
Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
Sì, il concetto era quello.

Evitai di rispondere alle accuse di quell'arpia e tenni il mio sguardo in basso.
«Ora ti faccio vedere cosa succede a quelli come te» mi informò con un ghigno.
Juliet si girò verso Pauline, prese un piatto di scadente lasagna e con poche cerimonie me lo svuotò in testa, sporcandomi i capelli rosso fuoco.

Ci misi qualche minuto per realizzare ciò che era successo. Risate generali riempirono la stanza. Sentivo gli occhi di ogni presente puntati su di me, in attesa della mia reazione.

MorpheusWhere stories live. Discover now