Capitolo 2: "La scema senza banco"

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Il primo ricordo che ho di Teo dura come una piccola stories di Instagram, un video di dieci secondi che rimarrà per sempre scolpito nella mia memoria.
Se solo lo avessi filmato oggi potrei guardarlo e riguardarlo, ma sarei apparsa ancora più cretina di quanto non sembrai poi a tutti i miei compagni di classe quel primo giorno di scuola, in quarta ginnasio.

Per l'occasione mi ero alzata presto. Allo specchio avevo provato a fare qualcosa coi capelli per dieci minuti, poi li avevo lasciati sciolti, cercando di domare col pettine le onde che si erano create nella notte.
Non era un brutto look, lo shampoo aveva accentuato i riflessi chiari nella mia chioma castana, lunga fino a metà delle spalle. Avevo messo jeans e maglietta nuovi – non ero mai stata tipa da marchi e loghi, ma avevo scelto un liceo classico frequentato da gente fighetta e non volevo fare brutta figura. Così sulla mia maglia bianca campeggiava la scritta 'Levi's' e avevo indosso le mie sneakers rosa più carine, consumate dall'uso. Col jeans nero pensavo di essere a posto – non sembravo ricca, ma nemmeno troppo stracciona.

In casa viviamo dello stipendio da operai dei miei nonni, che non sono ancora abbastanza vecchi da essere andati in pensione ma ci sono quasi.

È per loro che ho scelto un liceo che va oltre le mie possibilità. Le maestre delle medie mi avevano consigliato un socio-psico-pedagogico o magari un istituto turistico, ma secondo i miei nonni quelle donne erano delle pessimiste che non avevano intuito le mie reali possibilità.

Insieme abbiamo scartato solo lo scientifico perché arrancavo in matematica da sempre. È toccato a me scegliere tra linguistico, artistico e classico.

Se possibile in inglese facevo ancora più schifo che in matematica e disegnavo come una bambina di cinque anni – avete presente gli omini con le braccia come due stecchini dalle cui estremità partono cinque bastoncini?

Eccomi, sono io, disegno così gli esseri umani – probabilmente ancora adesso, alla veneranda età di sedici anni. Non ritento da qualche tempo solo per la vergogna.

Quando ho optato per il classico i miei nonni hanno esultato e così ho capito di aver fatto la scelta giusta. Sognano di vedermi frequentare l'università e non fare come mia madre, che si è fermata alla terza media dopo anni passati a cercare di agguantare un diploma professionale alla scuola serale.

Alla fine a me piaceva leggere e pure scrivere. Il liceo classico era per gente come me, mi ero detta.

Non sapevo ancora quanto mi sbagliavo. Stavo andando verso un ambiente in cui sarei stata una gazzella assettata in mezzo a branchi di professori coccodrilli nascosti nelle pozze d'acqua, pronti a saltare fuori azzannandomi con le loro interrogazioni.

Forse avrei almeno dovuto scegliere un istituto classico poco prestigioso, in cui andassero un numero minore di figli di papà, ma scuole come quella si trovavano troppo lontano da casa mia.

Riesco ad arrivare al mio liceo in trenta minuti esatti dal momento in cui mi alzo dal letto - se sono in ritardo e non faccio colazione. Mi è sembrato un buon criterio di scelta, tante sono le volte che non sento la sveglia.

Quel primo giorno il nonno mi ha accompagnato fino al cancello in macchina, fiero di veder andare al liceo la sua unica nipotina.

"Dài, nonno, andrò tutti i giorni coi mezzi, perché vuoi farmi fare brutta figura? Alle medie non mi hai mai accompagnato!"

"Ci andavi a piedi. Non ti accompagnerò all'università, perciò quest'ultima volta voglio farlo. Su, niente storie, Larettina, monta in macchina!"

In cortile non sono riuscita a negargli un bacio sulla guancia, ma mi sono accorta che fra i primini non ero l'unica che si era portata dietro i genitori.

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