La Fabbrica delle nuvole - Parte VI

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Non la vedo da quando l'ho baciata.

Sono trascorsi tre diurni, ma finalmente oggi al centro smistamento postale ho trovato a mio nome un biglietto dai contorni laminati con la scritta in calce "Permesso d'Acceso Zona A per 24 ore".

Alla stazione della Sopraelevata, il ramificato sistema di trasporto che "collega" l'intera Città, c'è una moltitudine di persone dallo sguardo spento, in attesa. Appena i vagoni del treno diretto alla città alta si fermano per farli salire ciascuno mostra il proprio permesso di lavoro; sono tutti pendolari assunti per fare i mestieri che nessuno di quei ricconi farebbe, pagandoli una miseria. Quando è il mio turno, l'addetto mi guarda perplesso, il mio è un biglietto speciale... io molto meno. Per quanto abbia fatto una doccia, tra l'altro gelata, rasatomi e indossato il miglior abito che il Chan avesse in magazzino, una divisa blu-nerastra con attaccati vecchi alamari scoloriti, si capisce subito che non appartengo alla Prima Cinta. È comunque irrilevante, non mi sono rimesso a nuovo per piacere a qualcuno di questi idioti spocchiosi.

Il treno viaggia veloce e posso osservare, sotto di me, la Città venirmi incontro, quasi volesse esser certa che non mi possa allontanare da lei. Le mura interne appaiono mentre arginano, in tutta la loro gloria, le costruzioni fatiscenti dei bassifondi come un tempo hanno fatto con i suoi abitanti. Le supero rapidamente, tuttavia ho la sensazione che serrando gli occhi le ritroverei ancora davanti a me.

E così attraverso per la quarta volta nella mia vita la parte bene del mondo. Per quanto la foggia degli edifici rimanga simile, anche da questa distanza le differenze sono evidenti. Tutto è più pulito, i palazzi non si soffocano l'un l'altro, niente fuochi di bidoni, né un mare di gente riversatasi per le strade al punto da rendere difficile il muoversi, qui tutti si spostano in fretta. Posso scorgere la cupola del Municipio, dove i destini degli abitanti sono decisi e dove Mairon Lurk attende di prendere in mano quei fili.

Scendo e cambio treno.

A bordo questa volta c'è pochissima gente; solo personalità di un certo livello viaggiano verso la Fabbrica. Non sorprende quindi che nessuno mi rivolga la parola, anche se so che tutti mi osservano; forse i gusti di Chan sulla moda sono un po' troppo retrò per loro che indossano quelle assurde e ampie tonache che a stento ne coprono i sandali trasparenti.

Davanti a me si erge il portone spalancato del Tempio d'Acciaio; un gigantesco ingranaggio posto su di una guida metallica sembra essere pronto a richiuderlo, comunicandomi una sensazione di ansia. In verità, ignoro come dovrei sentirmi in questo momento; ho osservato la Piramide per anni, dai bassifondi, con lo sguardo rivolto sempre verso l'alto. La mia esistenza e quella dell'intera Città è sempre ruotata attorno a quest'asse inamovibile, ogni suo macchinario, alimentato dal vapore, vi è in qualche modo connesso... è il cuore pulsante del mondo.

Quando mi decido a varcarne l'uscio resto abbagliato dalla luce: colonne luminose e fari sono disposti lungo tutte le pareti, eppure la sala d'ingresso è così grande che non riesco a scorgerne la fine. Ci sono così tante porte che non saprei quale scegliere, fortunatamente due Teste di Latta, ben più grandi e lucide di quelle che sono abituato a vedere, al mio arrivo mi ordinano di seguirle. Vengo scortato fino a una sfilza di sportelli con dietro uomini che indossano le vesti del Circolo e gnomi nei loro pesanti mantelli grigi concentrati su varie scartoffie; non ci vuole molto prima che un apprendista, di circa di diciott'anni, lasci la sua scrivania per unirsi al gruppo, presentandosi come guida designata alla mia persona. Insieme procediamo speditamente, senza che io smetta di guardarmi intorno. Le tante fogge degli "automi" ospitati nella struttura sono stupefacenti: alcuni simili a cassettoni che si spostano su numerose gambe meccaniche, altri che calano dal soffitto come ragni con fiamme ossidriche per zampe e altri ancora composti da sfere dalle quali fuoriescono decine di appendici con diverse estremità; ogni cosa si muove, perfino tra le aperture dei muri scorgo ingranaggi che ruotano o slittano rapidi in ogni direzione, ma è un movimento che nulla ha a che fare con la frenesia e il caos che vigono nella città: ogni cosa ha cadenze misurate e non produce alcun rumore.

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