Chapter 34: Police

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Calum

Sto per portare il vassoio con la colazione nella mia stanza quando sento le sirene della polizia e il campanello suonare. Allora raggiungo l'ingresso, poggio il vassoio sul tavolo del soggiorno con le sopracciglia aggrottate e apro la porta.

Un poliziotto se ne sta con le mani dietro la schiena, lo sguardo duro rivolto verso di me. Dietro di lui, una volante della polizia.
«Salve. Conosce il signor David Hood?»

Confuso, arriccio le sopracciglia e «Sí, è mio padre», asserisco. Mamma compare alle mie spalle, confusa tanto quanto me.
«Posso aiutarla?», chiede rivolta all'uomo in divisa. Quello dice che ha bisogno di mio padre e allora eccolo che arriva trafelato dalla cucina.
«Salve. A cosa dobbiamo la visita?»

Un secondo poliziotto compare alle spalle del primo e tira fuori delle manette.
«È lei David Hood?»
Mio padre poggia una mano sulla mia spalla. «Sì, sono io.» poi volta il capo verso di me. «Va' dentro, Cal.»
Ma io decido di rimanere qui. Faccio balzare lo sguardo dai due poliziotti ai miei genitori, chiedendomi cosa diamine stia succedendo.

«David Hood, la dichiaro in arresto per omicidio colposo. Ha il diritto di rimanere in silenzio, qualunque cosa dirà potrà essere usata contro di lei in tribunale. Ha il diritto di permettersi un avvocato, se non può permetterselo le verrà assegnato un avvocato d'ufficio.»

Allora spalanco le palpebre e il mio cuore inizia a battere più velocemente. Omicidio colposo.
«Cosa? Ma siete impazziti? Lui non ha fatto niente, avete sbagliato persona!»
Ostacolo il secondo poliziotto, pronto a mettere le manette ai polsi di mio padre, interponendomi tra loro due.
Mali arriva di corsa e continua a chiedere cosa stia succedendo fino a quando il poliziotto di prima mi sposta e prosegue con l'arresto.

«Mamma? Calum, che stanno facendo a papà?» Le sue palpebre si spalancano, la voce diventata un'acuto tremolante.
I due poliziotti scortano mio padre alla macchina. Nel frattempo mi chiedo perché non stia dicendo nulla, mi chiedo il motivo per il quale non dice una parola, non si ribella.

Solo «Sta' tranquillo», sussurra. Poi i due uomini lo costringono ad entrare nel veicolo e, con la stessa velocità con cui sono arrivati, se ne vanno.
Rimango impalato sul marciapiede, a guardare il punto in cui un attimo fa si trovava l'auto, la bocca spalancata e il cervello che cerca di elaborare una risposta quantomeno sensata per giustificare l'accaduto. Nessuna spiegazione. Quelli se lo sono portato via senza dire nulla di concreto.

«Mamma» è la voce di Mali a parlare. «Perchè lo hanno fatto? Cosa sta succedendo?»
Allora mi volto. Mamma sembra a un passo da una crisi isterica, lo vedo dal modo in cui cerca di mantenere la calma stringendo i pugni. Sospira pesantemente, ma proprio quando sta per parlare, Aurora compare ancora assonnata dal corridoio. «Calum? Tutto okay?»
Poi quando esce e vede Mali e mia madre in veranda si affretta a ricomporsi, salutando entrambe senza ricevere una vera risposta.

Si sofferma ad osservare le loro espressioni e «Calum, cosa sta succedendo?» chiede di nuovo. Non le rispondo, scaglio un pugno sulla corteccia dell'albero più vicino e la mano comincia a sanguinare e fa un male cane e inizio a piangere perché mi fanno agitare le situazioni nelle quali non ho più il controllo su niente e allora chiudo gli occhi e cerco di regolarizzare il respiro ma non funziona.
«Cal, tesoro, sta' tranquillo. Andrà tutto bene.»
Non capisco neanche cosa andrà tutto bene, perché non riesco a stare dietro alla situazione, il tempo mi scorre di mano, le immagini si susseguono e non riesco a capire cosa stia succedendo intorno a me. Polizia. Papà. Polizia. Aurora. Polizia. Mamma. Mali. Albero. Mano.

«Perfavore, vattene» sussurro. Alzo lo sguardo oltre le braccia di mia madre, che mi cingono da dietro in quello che si suppone essere un abbraccio rassicurante, ma sembra una specie di trappola che mi provoca ancora più agitazione. Aurora se ne sta davanti a me, forse con una faccia ancora più confusa e spaventata della mia, ma quando dico quelle parole posso quasi vedere i suoi occhi gonfiarsi di lacrime.
«No, io voglio aiutarti.»
«Allora aiutami andandotene via. Ti prego.» Ecco, adesso sto per piangere anch'io. Cazzo.
La vedo tentennare. Fa per dire qualcosa, ma poi sembra ripensarci e torna in casa. Pochi minuti dopo esce con indosso gli abiti di ieri sera.
«Grazie per tutto, Calum. E- e volevo solo dirti che dovresti imparare a dare alle persone l'opportunità di aiutarti, ogni tanto. Stare soli fa un po' male di questi tempi.»
Mi rivolge un piccolo sorriso, poi saluta mamma e Mali e si allontana per il marciapiede.

«Mio padre è appena stato portato via dalla polizia. Non ci sto capendo più nulla di niente. E non sono io a non dare l'opportunità agli altri di aiutarmi, sono loro che non prendono mai l'iniziativa. E stare solo non mi dispiace.»

Si volta. Un'espressione indecifrabile campeggia sul suo volto.
«Sei tu che non vuoi essere aiutato, Calum. Ti imprigioni nel tuo stesso stato mentale autoconvincendoti dicendo che non ti meriti la compassione di nessuno. Non cerchi aiuto peró pretendi che gli altri te lo diano. E, quando lo fanno, tu li allontani. Tutti quanti. E ti rendi inconsapevolmente solo, nonostante tu continui a credere di volere qualcuno affianco.»

«Tu non ne sai niente. Non farmi la predica.»
Serro la mascella. Il mio cuore palpita. Non ho più il controllo su nulla.

«So quanto basta per capire che sei tutt'altro di come gli altri credono tu sia. Dai aiuto in cerca di aiuto, ma quando ti si presenta qualcuno con la mano tesa la rifiuti perché credi di potertela cavare da solo. È questo che fai. Perché ti senti diverso, e vuoi dimostrare di potercela fare da solo come credi che facciano tutti gli altri.»

Silenzio. Non ho più neanche la voglia di ribattere. Eppure «Questa è la tua verità», sibilo a denti stretti.

«E allora qual è la tua?» chiede. Un mezzo sorriso in volto. «Smettila di dare la colpa alla prosopagnosia. Non è per questo che ti è difficile stabilire veri contatti umani. È perché hai paura. Di arrivare alla fine del percorso e uscirne più distrutto di prima.»

Mi rivolge un piccolo sorriso. Quello di chi sa di avere ragione.
Io sto immobile, con i piedi che sembrano come ancorati al cemento del marciapiede.
Mia madre volta il capo verso di me. Mi scruta con i suoi occhi nocciola, le sopracciglia aggrottate.
«Prosopagnosia? Che cosa significa?»

𝐂𝐎𝐔𝐍𝐓𝐃𝐎𝐖𝐍Where stories live. Discover now