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ROBERT

Quel giovedì, Alex dormì per tutto il giorno. Io mi occupai delle pulizie e, mentre preparavo la cena, ripensai alla scena del bagno, mio fratello in quello stato pietoso. Mi era sembrato di vivere un incubo. Come era potuta succedere una cosa simile? Avevo infranto una promessa, quella che durante il funerale dei nostri genitori avevo fatto a me stesso. "Mamma, papà, mi prenderò cura io di lui". Sbattei un pugno sul piano da lavoro su cui stavo affettando le
patate. Cazzo, non doveva succedere!
Squillò il cellulare: era Jennifer. Mi aveva mandato già un paio di messaggi, ma mi ero dimenticato di risponderle.
«Ehi, Jen».
«Robert, tutto bene?», chiese preoccupata.
«Sì, scusami se non mi sono fatto più sentire...»
«Ma cosa è successo a tuo fratello? Era sparito?»
«Sì, però ora non ne posso parlare». Alex poteva uscire dalla sua stanza da un momento all'altro. Volevo evitare il discorso al telefono. «Domani ti racconterò».
«Ah, va bene. L'importante è che si sia risolto tutto».
Sospirai. «Più o meno». Poi sentii un rumore provenire dal bagno. Alex si sarà svegliato. «Ora devo chiudere, Jenny. Ci vediamo domani al lavoro».
«Va bene, a domani».
Dal salotto, vidi mio fratello andare in cucina, così mi alzai e lo raggiunsi. Stava bevendo un po' d'acqua.
«Hai fame?», gli domandai. Mi lanciò uno sguardo assonnato, non rispose e si sedette sullo sgabello della penisola.
«Certo che hai fame. Con tutto l'alcol che avrai bevuto...», sospirai.
Presi una porzione di pollo e patate e la riscaldai nel microonde. Poi gli misi il piatto davanti, ma Alex lo guardò con indifferenza. Mi sedetti di fronte a lui e aspettai, però lui continuava a ignorare sia me che il pollo.
«Non ti piace? Preferisci qualcos'altro?», chiesi per rompere quel silenzio snervante. Continuava a tacere, così mi alzai e gli levai il piatto. «Ho capito, non hai fame». Ma lui lo trattenne e continuai: «Alex, vuoi mangiare? Sì o no?»
Sollevò lo sguardo e annuì. «Alex, sì o no?» Doveva parlare, non potevo accontentarmi dei gesti.
«Sì», disse con voce sommessa e iniziò a mangiare. Riscaldai un po' di pollo anche per me
«Ti piace?», chiesi. «Lo so, non sono un ottimo chef», ridacchiai per smorzare la tensione.
Senza guardarmi, annuì. «È buono».
Appena terminò, si alzò per riporre il piatto nel lavello. Cercava di allontanarsi per non affrontarmi, così lo richiamai: «Alex!»
Si voltò, le mani nelle tasche della felpa, un'espressione impassibile come se le emozioni non gli appartenessero più. Né rabbia né senso di colpa. Nemmeno dispiacere per quello che era successo.
«Siediti, dobbiamo parlare».
Fece una smorfia annoiata e andò via.
«Alex, devi ascoltarmi!», mi lamentai. «Torna qui!»
Non mi ascoltò, così mi alzai e lo seguii nella sua stanza. Gli impedii con la forza di chiudere la porta ed entrai: «Non puoi far finta che non sia successo nulla. Secondo te è normale quello che ho visto?»
«Che c'è? Ora non posso più divertirmi?», sbottò esasperato.
Lo fulminai con lo sguardo e urlai: «Che cosa? Secondo te, quello è divertirsi?»
Lui sbuffò, si sdraiò sul letto e infilò alle orecchie un paio di auricolari.
Strinsi i pugni, stavo perdendo la pazienza, mi avvicinai e gli
strappai le cuffie. «Devi ascoltarmi, ok?»
Mio fratello mi fissò infastidito. «Ma che ti frega? Se stai sempre a lavorare...»
Sollevai le mani. «Ah, scusa se cerco di portare a casa uno stipendio».
Per tutta risposta, lui prese il cellulare e tornò a ignorarmi.
Forse era stato uno sbaglio accettare il secondo lavoro. Cercai di calmarmi e mi sedetti sul letto. «Mi dispiace se ti è sembrato che non m'importasse. Vedi, Alex, io non voglio farti mancar nulla. È per questo che...»
Lanciò il cellulare contro il muro e urlò: «Mi hai tolto tutto invece!»
«Cosa stai dicendo?», chiesi confuso.
Si voltò verso di me e sbraitò: «Io rivoglio mio fratello, quello che mi faceva ridere e mi faceva sentire amato in qualunque momento!» Scattò in piedi. «Lo so che tu lo fai per i soldi, ma a me non interessano. Io ho bisogno di te!»
Sentii una stretta al cuore. In quel momento mi vidi come il fratello peggiore al mondo.
«Ho bisogno di te», ripeté con voce tremante. Poi liberò le lacrime.
Mi alzai e lo strinsi tra le braccia. «Anche io ho bisogno di te.
Mi dispiace per tutto, Alex. Perdonami».
«Scusami per quello che ho fatto», sussurrò singhiozzando.
Lo guardai e lo baciai sulla fronte. «Si sistemerà tutto, non preoccuparti».
Sorrise con gli occhi ancora umidi. «Ti voglio bene, fratellone».
Gli asciugai le lacrime. «Ti voglio bene anche io».

La notte non riuscii a dormire. Mi alzavo dal letto, girovagavo per la casa in cerca di una soluzione, andavo in camera di Alex per controllare che stesse dormendo e non fosse scappato dalla finestra.
Dopo quello che era successo, potevo aspettarmi di tutto. Mi sentivo in colpa. Io ero il suo tutore e avrei dovuto rimanere vigile, ma avevo perso il controllo della situazione. Non capiterà di nuovo! Mi sedetti sul divano, mani tra i capelli, e iniziai a pensare. Non sapevo che strada scegliere, chi contattare o dove andare. Quella della droga era una questione delicata che non si poteva risolvere con uno o due mesi di punizione. Bisognava rivolgersi a un centro di disintossicazione, affidarsi alle persone giuste. Io però non conoscevo nessuno. Presi il cellulare e controllai la rubrica: l'indice si fermò sul numero dei nonni. Loro erano gli unici che potevano aiutarmi, anche se non li sentivo da tempo. Dopo la questione dell'affido, solo Alex era rimasto in contatto con loro per le festività o per gli auguri di compleanno.
Guardai l'ora, erano le undici, e chiamai nonno Frank, sperando
non fosse già a letto. Mi alzai e guardai fuori dalla finestra, il piede
che picchiettava sul pavimento.
«Pronto?», rispose dopo un paio di squilli.
«Nonno?» La voce mi uscì un po' tremolante e tirai un forte respiro per calmarmi.
«Ciao, Robert», disse sorpreso. «Ehm... come stai?»
Camminai verso la cucina. «Insomma», mi sedetti sullo sgabello e giocherellai con una penna.
«È successo qualcosa?», poi sentii la voce stridula della nonna chiedergli chi fosse a quell'ora di sera. Esitai. In quel momento, mi pentii di averlo chiamato. Avrei voluto sbrigarmela da solo, dimostrare che potevo farcela anche senza il loro aiuto.
«Robert, ci sei?»
Malgrado tutto, avevo bisogno di loro. Non potevo negarlo.
«Senti, nonno, devo dirti una cosa».
«Cosa è successo? Alex sta bene, vero?»
«È proprio di lui che devo parlarti». Scesi dallo sgabello e ritornai in salotto.
«Oh, madonna santa, cosa è successo ora?», si agitò e sentii la
nonna borbottare. E ora come glielo spiego? Devo essere diretto?
«Robert, vuoi parlare? Cosa cazzo gli è successo?»
«Ha avuto problemi con la droga». Deglutii, poi guardai verso il corridoio in caso mio fratello stesse origliando.
«Con la droga?», chiese confuso. «Stai scherzando? Alex è solo un ragazzino».
«Lo so questo!», esclamai disperato. «Purtroppo è successo e ho
bisogno del vostro aiuto». Feci una pausa. «Per favore».
«Ma ora come sta? È lì con te?»
«Sta bene. Ora sta dormendo».
«Ma non capisco! Come è potuto succedere? Tu dov'eri?»
«Io...», provai a rispondere ma fui interrotto dalla voce seccata di mia nonna: «Robert, ti rendi conto di quello che è successo, vero? Alex ha solo quattordici anni e ti sei fatto sfuggire una cosa simile. È grave, Robert. Che stavi facendo in quel momento? Stavi forse...»
«Lavoravo!», alzai il tono di voce e guardai di nuovo verso il corridoio. Speravo che Alex non si svegliasse. «Io faccio due lavori per dare ad Alex il meglio».
«E si vede, il meglio che gli hai dato».
Mi lasciai cadere sul divano. Sapevo benissimo di non essere stato perfetto, ma sentirmelo dire da qualcun altro, soprattutto da lei che lo prevedeva già da quattro anni, rese la pillola amara. Avevo fatto avverare i loro presentimenti. Avevo fallito.
«Robert, ovviamente aiuteremo Alex», riprese a parlare. «Lui non ha colpe, la tua negligenza sì, invece. E ovviamente, avremo noi il controllo su tutto. Pensa alla tua vita, penseremo noi a lui».
Socchiusi gli occhi, smarrito. «In che senso, scusa?»
«Non penserai di occupartene tu, vero? Dopo quello che è successo, è il minimo che ti metta da parte e faccia agire finalmente degli adulti».
Strinsi i pugni. Mia nonna mi vedeva ancora come il ragazzino di quattro anni prima, un diciottenne insolente e irrazionale. Lei sosteneva che avessi chiesto l'affido per puro egoismo, perché non volevo restare a Boston da solo. Invece le mie erano buone intenzioni, Alex aveva bisogno dell'amore fraterno, e poi non volevo allontanarlo dalla scuola e dagli amici. Aveva già perso i genitori...
«Domani mattina prenderò il primo volo per Boston. Avvisa Alex di...»
«No», la bloccai. «Lo accompagnerò io. A che ora c'è l'aereo
per Seattle?»
«Robert, non...»
«Per favore. Almeno questo fammelo fare».
Non rispose.
«Nonna, per favore. Voglio accompagnarlo io, fosse l'ultima
cosa che faccio». Mai avrei voluto che quella fosse l'ultima, ma non sapevo cos'altro dirle. Doveva farmi partire con lui!
«Va bene. Ci sentiamo domani», mi informò prima di chiudere.
Tornai in stanza per cercare di dormire, ma sapevo già che sarebbe
stato un tentativo inutile.

«Chi chiami a quest'ora?», chiese Alex quando entrò in salotto.
Fui stupito nel vederlo già pronto per la scuola.
«I nonni. Andrai a stare un po' da loro».
«Che cosa? No, voglio rimanere qui con te».
Mi avvicinai e gli accarezzai i capelli. «Devi farlo. È per il tuo bene. E poi c'è una famiglia che non vede il suo nipotino da mesi».
Ed è soprattutto per colpa mia.
Sbuffò. «Sei tu la mia famiglia».
Sospirai. «Dai, non incominciare. Ti piacerà Seattle».
«No! Ho bisogno di te, non di loro!»
«Alex, fidati. Tornerai presto e ti accompagnerò io». Chiamai il
nonno e lui uscì contrariato dalla stanza. Non ero felice di allontanarmi da lui e non volevo che pensasse che volessi abbandonarlo. Ma non c'era alternativa.

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