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ROBERT

«Alex, hai deciso di dormire stamattina?» Ogni giorno era la stessa storia.
«Ora mi alzo, Rob!», urlò e mi lanciò un cuscino.
«Muoviti!» Gli afferrai un piede e con forza lo trascinai giù dal letto. «Ti è sempre piaciuta la scuola. Cosa ti prende?»
Sbuffò. «Ma quest'anno sono al nono!»
«E quindi?»
Si infilò le pantofole ed entrò in bagno sbattendo la porta.
Dopo la morte dei nostri genitori, quattro anni fa, Alex non era più lo stesso. Qualche notte lo sentivo persino piangere nel sonno. A soli dieci anni, non era stato facile affrontare una perdita del genere. Non lo era stato nemmeno per me, a dire il vero. Ma tiravo avanti. Anzi, ero andato avanti. Non avrei potuto fare altrimenti. Mio fratello era sotto la mia responsabilità e dovevo crescerlo nel miglior modo possibile. O almeno ci provavo. Non era facile combattere, ogni giorno, con un adolescente ribelle come lui.
«Alex, sei pronto? Farò tardi il primo giorno di lavoro, maledizione!», gridai mentre lo aspettavo all'ingresso. Ma lui non rispose. Gettai il suo zaino per terra e corsi in bagno: stava parlando al cellulare seduto sul bordo della vasca. Lo afferrai per un braccio. «Su, andiamo!» Dovevo ricorrere sempre alle maniere forti.
Lui si divincolò e gridò: «Finiscila! Non sei mio padre, non puoi dirmi cosa devo fare. Lasciami in pace!» E corse verso la porta d'ingresso.
Non avevo la forza di andargli dietro. Da quattro anni, lavoravo senza sosta per pagare le bollette e prendermi cura di lui, ma non avevo mai sentito dalla sua bocca un "grazie". Doveva portarmi rispetto, cazzo! Per chi mi aveva preso? Per un compagno di classe? Ricordo che da piccoli ci divertivamo tanto insieme: mentre io ero al piano con nostra madre, lui faceva finta di essere una ballerina di danza classica e ondeggiava per tutta la casa. Quanto rideva! Quanto ridevamo! Era l'unica famiglia che mi restava e non volevo perdere anche lui. Dove diavolo stavo sbagliando? «Ha solo quattordici anni, è in un periodo complicato della sua vita, ha perso i genitori. Comprendilo», mi ripeteva di continuo la gente. Ma anche io avevo perso i miei genitori. Avevo solo ventidue anni e mi sembrava di averne quaranta.
Mi affacciai alla finestra. Di sotto scorsi un gruppetto di ragazzini: avevano pantaloni a vita bassa, maglia larga e il berretto al contrario. Vidi Alex avvicinarsi con disinvoltura, ridere per qualcosa che uno di loro gli aveva detto e andar via.
Chiusi la finestra e guardai l'orologio: cazzo, le otto! Presi le chiavi e uscii di corsa.

Quando arrivai in caffetteria, Jenny stava servendo ai tavoli e un altro ragazzo era indaffarato tra caffè e cornetti. I clienti erano quasi tutti professori, impazienti e già esausti di prima mattina. Mi guardai intorno: l'arredamento era color avorio e le pareti crema. Nonostante fosse l'ora di punta, sembrava tutto pulito e in ordine.
Poi Jenny si accorse di me e mi chiese di raggiungerla con un cenno della mano. Avevo ottenuto questo lavoro grazie alla sua conoscenza, molto intima direi, con Henry, il nostro responsabile. Non era facile essere assunti alla Moz-Art. Jenny mi aveva detto che facevano una selezione ben accurata del personale. Non osavo immaginare quanto fosse difficile essere ammessi come allievi.
Mi baciò sulla guancia. «Sei fortunato. Henry arriverà in ritardo stamattina», bisbigliò e ci spostammo dietro il bancone.
«Perché fortunato?», chiesi ridendo. Mi guardò seria. «Non ama molto i ritardi».
«Ah». Allora sono proprio spacciato. Grazie a mio fratello, sarò il re dei ritardatari.
Sorrise e mi lanciò un grembiule. «Mettilo e poi, su, a lavoro!»
Feci il saluto militare. «Subito, capo».

«Robert, tutto okay? Sei un po' assente», chiese Jenny. Erano i nostri dieci minuti di pausa. Sbadigliai.
«Sì, sì, tutto bene. Sono solo un po' stanco. Ieri sera ho finito tardi al pub», le spiegai mentre mi preparavo un caffè.
«Okay, ma non puoi fare entrambi i lavori, lo sai? Ho messo la mia buona parola, perché so quanto tu ci tenga a questa scuola. Però...»
«Non ti preoccupare, ho tutto sotto controllo», la interruppi con tono scocciato, e in silenzio fissai la tazzina di caffè. La Moz-Art mi ricordava mia madre. Avrei studiato qui, se non ci fosse stato quel maledetto incidente. Strinsi i pugni. Invece, mi ritrovavo a combattere con un ragazzino poco riconoscente e con le bollette. «Robert?», mi richiamò accarezzandomi il braccio. Mi voltai a guardarla.
«Che c'è?»
«No, niente. Lascia stare».
Sospirai. «Scusami, Jenny. È solo che...»
«Solo che cosa? Parlami per favore. Ti ricordi? Come ai vecchi tempi». Annuii e, con la complicità di Jack e l'assenza di Henry, ci sedemmo a uno dei tavolini della caffetteria.
«Che succede?», chiese appoggiando una mano sulla mia. Sospirai.
«È Alex il problema».
«Cosa ha combinato?»
Scossi il capo. «Non mi ascolta mai, Jen», chinai la testa e l'avvolsi tra le mani. «Non so più cosa fare».
«E ora a casa non ci sarai quasi mai. Ci hai pensato?»
Ritornai a guardarla e arricciai la fronte. «Io lavoro anche per lui. Dovrebbe capirlo!»
«Ma Alex ha solo quattordici anni! Ha bisogno dell'unica persona che gli è rimasta. Non puoi usare l'eredità di tua madre?»
«Preferisco tenerla da parte. Alex dovrebbe andare al college e devo essere in grado di aiutarlo. Di dargli quest'opportunità».
«E non hai mai pensato di vendere la casa? Potresti affittarne una più piccola e...»
Scossi il capo. «Non posso. Lì dentro c'è tutta la mia infanzia, mia madre, la musica». L'idea di abbandonare quella casa mi devastava.
«Devi trovare una soluzione però. Lascia il lavoro al pub e resta a casa con tuo fratello. Devi dargli quell'amore che non può ricevere più da altri».
Annuii dispiaciuto. «Sì, lo so».
Mi guardò comprensiva, poi aggiunse: «E ritorna a suonare per favore. Mi piacerebbe riascoltarti un giorno». Sorrise, e io le fui grato di avermi ascoltato.

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