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28 settembre 1988

Oggi sono successe così tante cose e ora che ci rifletto capisco che l'unico modo per ragionarci bene è metterle per iscritto, una dopo l'altra. Partirò dal principio. Stamattina ero talmente stanco - e ancora turbato dagli avvenimenti della notte precedente - che ho passato le prime tre ore di scuola a dormire con la testa nascosta sotto un groviglio di braccia, sul banco freddo. Al suono della quarta campanella della giornata, quella che segnava l'inizio della ricreazione, la porta dell'aula 52 si è aperta e ne è entrato nientepopodimeno che Gerard Way, in tutta la sua lucentezza del mattino inoltrato. Era entrato per chiedere qualcosa all'insegnante di ruolo in quell'ora, cioè quella di chimica, ma si era bloccato, incerto, non appena aveva aperto la porta dopo aver bussato. Aveva poi avanzato verso la cattedra, mentre tutti gli studenti nella classe lo superavano e uscivano dalla porta riversandosi nei corridoi per salutare i propri amici e dirigersi nel cortile, tutti tranne me. Io che stavo appoggiato con la testa sul banco, ora lievemente sollevata per osservare la scena di fronte a me, e cercavo di non farmi notare, eppure al tempo stesso desideravo essere visto da quel delicato fiore color carminio dai petali frantumati. Dopo un buon minuto e mezzo lo vidi girarsi, salutare la professoressa e andarsene, solo dopo aver riservato una lunga occhiata colma di perplessità verso di me, o verso l'aggrovigliamento di braccia e stoffa grigia della felpa che mi circondava la testa.
Me ne andai anche io, poco dopo, perchè in fondo mi sentivo solo a starmene lì, tutto raggrumato sul banco, in un aula vuota con un'insegnante, e sapevo che in corridoio avrei trovato Ray.
Infatti, Ray era proprio lì fuori ad aspettarmi, insieme a Jamia, la nostra migliore amica sin dalle medie. Il nostro è sempre stato un trio, ma con il fatto che Jamia è una ragazza, il tempo e la pubertà ci hanno divisi fino ad arrivare ad una quasi completa scissione del gruppo. Eppure ci vogliamo ancora un gran bene, e, se non è impegnata con qualche ragazzo o con i suoi nuovi amici, Jamia non rinuncia mai ad uscire con noi e seguirci nelle nostre strampalate avventure. Certo, rispetto a qualche anno fa è diverso, lei è più distaccata e seria, non indossa più tute larghe e giacconi maschili, non si getta più nella terra del campo dietro casa mia per giocare a pallone, non sta più con noi a provare fallimentari sedute spiritiche o lavori manuali, ora pensa solo al proprio aspetto, ai ragazzi che le vanno dietro, alle discoteche e simili. Devo ammettere che mi manca, anni fa è persino stata la mia ragazza per qualche mese, ma ci siamo lasciati dopo poco, accorgendoci che tra noi ci sarebbe sempre stata solo una forte amicizia. Ma insomma, stavo dicendo che Ray e Jamia erano fuori dalla porta dell'aula 52 ad aspettarmi. Appena mi hanno visto mi sono venuti incontro chiedendomi se per caso domani sera mi andava di venire con loro al cinema, a vedere un film con Dustin Hoffman e Tom cruise di cui non ricordo neanche il nome, ma che sono abbastanza curioso di vedere.
Dunque ho accettato, poi, con la scusa di volermi fumare una sigaretta, sono uscito nel cortile sul retro dove solitamente non va mai nessuno, se non perchè deve fare qualcosa di nascosto da occhi indiscreti. Non che io dovessi fare qualcosa di losco, fumare in giardino non è mica un reato, mi andava solo di passare qualche minuto in solitudine, nel completo silenzio. E così sarebbe stato, se tutto d'un tratto non avessi percepito la leggera pressione di qualcuno che si sedeva accanto a me sulla panchina, qualcuno che doveva essere quasi invisibile, per non essere riuscito a rapire la mia attenzione avvicinandosi. Per poco non ho creduto che fosse un fantasma, perchè, girandomi, la più bella delle stagioni si è palesata ai miei occhi, portata dalla dolce presenza di Gerard Way seduto a meno di mezzo metro da me.
Tremava come una foglia, eludeva il mio sguardo come se fosse una molesta telecamera da cui non voleva essere ripreso, e mi dispiaceva tanto vederlo così in soggezione.
«Ciao.» gli ho detto, guardandolo con un luccichio di interesse negli occhi, mentre lui ammirava la nullità dell'erba bruciata del prato che si stendeva davanti a noi.
Presi un ultimo tiro dalla sigaretta, soffiai fuori con il mento alzato per gettare il fumo il più lontano possibile, poi spensi il tubetto di tabacco e nicotina che mi stava deteriorando i polmoni e mi voltai di nuovo verso di lui. Non volevo intimorirlo, non volevo che se ne andasse.
«Ciao.» mi rispose, e lo vidi mordersi un poco il labbro, come se stesse meditando su cosa dirmi.
«Perchè mi guardi sempre.»
Qui lo scrivo senza punto di domanda perchè, nel parlato, non ha assunto un tono interrogativo. Sembrava più un'affermazione, seria e concisa, inalterata come la purezza del suo sguardo vuoto.
In quel momento avrei potuto rispondere di tutto, ma ho deciso di non mentire. Chi mentirebbe di fronte a tutta quella bellezza? Chi non impallidirebbe al cospetto della posatezza con cui quel ragazzo si esprime e si atteggia, ignorando tutto il resto?
«Perchè ti trovo interessante. Mi piace guardarti, tutto qui.»
Forse un po' ho mentito, non è tutto qui, ci sono mille altre ragioni che mi portano a guardare solo ed esclusivamente lui in un mare di corpi strappati alla gioventù. Perchè solo lui è bello, perchè solo lui ha quell'aria di innocenza e distacco che non ho mai visto sfoggiare da nessun'altro, finora.
«Okay.»
Si è girato e mi ha guardato brevemente, facendo scorrere gli occhi dal mio viso fino alle mie mani intrecciate sul grembo, poi si è acceso, ricordandosi di qualcosa.
«Ah...grazie ancora per l'altro giorno. Ho apprezzato il tuo gesto. E-ecco, nessuno lo aveva mai fatto.»
Subito ho pensato a quanto dovessero essere stupide le persone per non avere l'impulso naturale di proteggere quel ragazzo. Io l'ho fatto in modo puramente spontaneo, senza nemmeno pensarci.
«Figurati, era il minimo che potessi fare.»
«Perchè..perchè il minimo?»
«Perchè farei anche di più.»
«E come mai?»
«Perchè mi sembri speciale e..insomma..è un modo per fartelo capire.»
Si è messo a ridere in modo teatrale, amaro, come se avessi appena detto qualcosa di neanche lontanamente pensabile.
«Non lo sono, ahah, non lo sono.»
Se n'è andato, impercettibile, così come era venuto, e non ho avuto nemmeno il tempo di fermarlo perchè, dopo un battito di ciglia, lui già non c'era più. Sono rimasto seduto su quella panchina anche dopo il suono della campanella, perplesso, inebetito dal suo comportamento. Non lo sono? E perchè mai non dovresti esserlo, Gerard? Avrei voluto chiederglielo, avrei voluto sapere di più. Ma lui non c'era.
Subito dopo scuola l'ho cercato nei corridoi, ma non sono riuscito a vederlo. Così ho preso la via per casa, strisciando le scarpe sui marciapiedi logori fino a farle diventare del medesimo colore del fango. Solo dopo qualche minuto mi sono accorto che, noncurante di tutto ciò che mi accadeva intorno, avevo sbagliato strada ed ero finito in Green Street, tutt'altro che la scorciatoia per casa mia. Allora sono tornato indietro per trovare la via giusta, ma qualcos'altro ha catturato la mia attenzione, tra le case benestanti e gli irti pini di quel viale fuori periferia.
Erano delle urla, delle grida languide e cariche di agonia, dei lamenti imploranti, prossimi più alla resa che alla ricerca di aiuto. La voce aveva una nota femminea, interrotta di tanto in tanto da singhiozzi; pianti disperati. Improvvisamente ci fu una profonda risata, che feci fatica a sentire per la lontananza, a cui si aggiunse anche un altro ghigno di divertimento; divertimento sadico e distruttivo. Il rumore mi rimbombava da un orecchio all'altro come un ritmo pungente attraverso delle cuffie, non riuscivo a distinguere da dove potesse provenire e di conseguenza correvo a zonzo, avvicinandomi ad ogni singola abitazione per capire quale fosse la dimora di un simile strazio. Le case erano poche e concentrate tutte in un piccolo centro, perciò non è stato così arduo arrivare a quella da cui le voci venivano. Ma non mi sarei mai aspettato che la fonte di quell'inquietante spettacolo sonoro fosse Villa Way. Essa si ergeva possente davanti a me, col suo colore bianco e il suo tetto ligneo rifinito alla perfezione, teatro di un male che avevo, e che ho tuttora, paura di scoprire. E che ho fatto? Sono scappato. Sono corso via a gambe spedite e ho chiuso gli occhi, ho tappato le orecchie, per evitare tutti i possibili scenari che la mia mente avrebbe potuto creare per darsi una spiegazione.
Se fosse stato solo frutto della mia immaginazione? Me lo sto chiedendo da circa tre ore, seduto sul mio letto sfatto, ma non mi so dare una risposta. Non voglio realmente darmi una risposta, perchè temo di essere stato lo spettatore di qualcosa che non avrei dovuto sentire, che per fortuna non ho avuto la capacità di vedere. Ed è così evidente e palese da sembrare verità, ma mi va bene così, non voglio sapere.

Vero, Frank? Tu non vuoi sapere.

Per quanto io possa continuare a scervellarmi, il ricordo rimane lì, accantonato, mi fissa chiedendosi quando smetterò di ignorarlo. Ma io non voglio sapere. Io non devo sapere.

latibulum - frerardWhere stories live. Discover now