1. Stranger in a Strange Land

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CALLUM

Spostai gli occhi al cielo e fissai le nuvole grigie addensarsi sopra la mia testa, inspirai profondamente e portai una mano istintivamente al mio petto, poco sotto la gola. L'inizio della scuola, l'ultimo anno, poi il mondo, l'ignoto, si ha sempre paura di ciò che non si conosce eppure io non sapevo di cosa avevo paura. Non sapevo dare un nome a ciò che sentivo dentro di me per la maggior parte del tempo, forse era paura quello che sentivo o forse era consapevolezza.

Distolsi lo sguardo dal cielo, riportandolo davanti a me, fissavo gli studenti ridere tra loro ed incamminarsi mentre io non riuscivo a compiere un solo passo. Dovevano sentirsi così tremendamente invincibili in quell'involucro di gioventù e nuove occasioni, d'altronde cosa avrebbero dovuto temere nel pieno dei loro anni? La morte forse? Può darsi, quella non faceva mai sconti, eppure sussurrava alle loro orecchie un messaggio confortante: puoi morire solo una volta. Li invidiai per quello, perché loro stavano bene, erano vivi e potevano morire solo una volta. Loro non erano come me.
Sentii qualcosa interferire con il mio respiro nella gola, sapevo che nulla la stava ostruendo eppure quella sensazione era reale, tanto reale da far accelerare i battiti del mio cuore. Tossii ma non servì, stava arrivando, la morte stava arrivando.
Finalmente le mie gambe si mossero e corsi via, dovevo rifugiarmi da qualche parte lontano dagli occhi che si stavano già voltando a fissarmi, lontano dalle teste che si scuotevano con biasimo, dai giudizi, dovevo affrontare il mio demone in totale solitudine.
Finii per rinchiudermi in un magazzino, parte della stanza era riempita da attrezzi sportivi e palloni ma c'era una porzione di pavimento libero in cui andai a distendermi, anzi in cui caddi e mi rannicchiai. Slacciai i primi bottoni della camicia mentre la mia bocca si allargava alla ricerca di aria, i miei occhi stavano mischiando lo scenario davanti a me, i battiti accelerati, il petto mi faceva così male da sembrare che si potesse squarciare da un momento all'altro. Le persone erano destinate a morire una volta solo mentre io ero condannato a vivere centinaia di piccole morti ogni giorno, sentire la mia mente staccarsi dal corpo, sentire l'annientamento, assaporare la fine e poi essere ributtato in questo corpo che va in pezzi e rivivere tutto da capo. Era questo un attacco di panico, almeno era quello che sembrava a me, era una morte che non ti uccide, era una fine che ti fa temere l'inizio, era una nebbia di cui non puoi liberarti, una muta ombra che riesce a strangolarti. Niente controllo, nessuno che possa aiutarti, nessuno che possa capirti mentre affondi nelle sabbie mobili, solo qualche occhiata dubbiosa, solo sagome lontane.
- Aaah-a – un ennesimo respiro che non riuscii a prendere pienamente mentre un ronzio mi perforava le orecchie.
Finirà Callum, starai meglio fra poco, è solo un attacco di panico, non c'è nulla di cui aver paura, questo mi avevano detto tante volte, questo mi ripetevano i medici. Peccato pensavo io, peccato che starò meglio, perché finché vivo accadrà ancora, ancora, ancora, ancora.
Ma è quello che meriti bastardo.
Quello che merito, questa vita miserabile è quello che merito, un prezzo fin troppo basso per aver commesso il peccato più grande, l'abominio più spietato.
Poi, esattamente com'era venuto, quel dolore sparì, l'attacco era finito, la mia vista era tornata, il mio corpo era di nuovo mio, ma per quanto tempo? Scacciai via quella domanda e mi misi in piedi ancora un po' scosso. Inspirai profondamente e poi portai la mano alla maniglia del magazzino, era tempo di riemergere dalla tomba ancora una volta.


Nel corridoio gli studenti continuavano la loro vita placidamente e mi resi immediatamente conto di non essere il loro oggetto di derisione numero uno come al solito. Spostai gli occhi e mi resi conto di uno sconosciuto fra le facce familiari della scuola, un ragazzo nuovo. La parte caritatevole di me, o ciò che era rimasto, provò una sorta di dispiacere per lui, non mi servì una lunga occhiata per intuire che non era come gli altri, il suo sguardo lontano e distaccato era eloquente. Era un animale ferito, che aveva visto il peggio del mondo e anche quella volta la morte non era venuta a salvarlo.
Alla fine mi voltai e proseguii per la mia strada, ancora un anno e sarei andato via da quelle pareti opprimenti, da quegli sguardi penetranti, da quelle persone fastidiose.
Ma cosa stai dicendo? Credi che il diploma ti renderà libero?
Non potevo pensare anche a quello, cercai di scacciare via quell'ennesimo fardello, dovevo concentrarmi su qualcosa di migliore, dovevo vedere la speranza almeno per cinque secondi al giorno anche se non esisteva più, anche se non c'era mai stata.
- Fimmel! –
Sentire il mio cognome mi fece sobbalzare e voltare leggermente intimidito, sapevo già chi fosse, l'ennesimo sputo sulla mia esistenza, l'ennesima spina sui miei stanchi fianchi, l'ennesima pulce al mio sordo orecchio.
- Ciao Maxwell – dissi a stento, certe volte la mia voce aveva uno strano suono, quasi non fosse mia.
- Ce l'hai il saggio? –
Tirai fuori dal mio armadietto il plico di fogli e glielo porsi, lui me lo strappò di mano e un sorriso compiaciuto comparve sul suo viso.
- Ottimo lavoro, spero che mi frutti almeno una A, non ti conviene che torni a lamentarmi – disse con tono eloquente.
- Una A – ripetei – sicuro –
Quello parve soddisfatto e andò via con il petto gonfio ma la sua gioia sarebbe finita fra qualche giorno, quando il professore sarebbe tornato con i risultati. Maxwell credeva che bastasse il terrore per instillare nel prossimo reverenza ed era così sicuro che io lo temessi che non avrebbe mai letto quel saggio. Ma io non avevo paura, non di lui, non di un uomo come lui, conoscevo mostri peggiori e quel saggio sbagliato era l'ennesimo tentativo di liberarmi dal peso della mia esistenza. La speranza che Maxwell tornasse con i suoi amici per darmi una lezione ed io un giorno non mi sollevassi più da quel pavimento.
Perché non la fai finita e basta?
Fare finire questa vita? Con che diritto? Questa non era nemmeno la mia vita, non solo almeno. Non toccava a me prendere decisioni su come finirla questa esistenza di cui non avevo il controllo.

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