«Che significa?» gli chiese Bucky scrollando il capo.
«Ogni volta che ti lascerai dei segni sul braccio lo farò anch'io, sul destro però.»
«Smettila.»
«Vorresti impedirmelo tu?» incalzò Steve con un sorriso provocatorio.
«Non puoi fare una cosa del genere.»
«Il corpo è mio e ci disegno sopra ciò che voglio. Chi impedisce a te di ferirti? Mica qualcuno ti taglia le mani per fartela finire. Ad ognuno i suoi scarabocchi.»
«Quindi tu vorresti tatuarti la data del giorno in cui mi ferisco? Vuoi farmi un dispetto?» Bucky si era ritrovato estremamente vicino alle labbra di Steve, guardandolo negli occhi con fare di sfida.
James sapeva che Steve avrebbe sostenuto quella sua nuova pazzia, ma non voleva crederci fino in fondo; dopotutto non aveva più spazio per altri tatuaggi su quel braccio, con tutti quei numeri avrebbe rovinato la sua perfetta composizione di disegni.

«Non è un dispetto. Hai fatto prendere anche a me un'abitudine simile.» continuò il tatuatore.
Bucky si ritrasse dall'imminente bacio di Steve e rise amaramente.
«Credi che il mio sia un vizio? Davvero? E poi non riuscirai mai a contare perfettamente tutte le ferite che mi infliggo ogni giorno.»
«Tu ne sei davvero così sicuro? Credi che non ti controlli? Che non lo percepisca?»
Il silenzio pieno di colpa, ormai loro fedele amico, tornò ad incombere sul loro dialogo.

«Vorrei tanto andarmene.» e con ciò Bucky intendeva andare via da quella casa, da Brooklyn, dalle persone, andare e morire.
«E dove, senza di me?» gli chiese Steve amorevolmente, avvicinandosi per abbracciarlo da dietro.
«È propio questo il problema. Per colpa tua non ci riesco.»

L'espressione di Steve si tramutò in una maschera di rabbia. Bucky ebbe il terrore che presto sarebbe iniziata una litigata per causa sua. Continuava a premere la carta assorbente contro la ferita, ormai zuppa di sangue. Steve setacciò la casa prendendo uno zaino e cacciandoci dentro con foga vestiti estivi, una bottiglia d'acqua e qualche sandwich avanzato dalla sera prima.
Bucky pensò che fosse giunto il momento; che Steve sarebbe andato via da casa o che avrebbe cacciato lui.

Steve prese le chiavi dell'auto e spalancò la porta d'ingresso.
«Forza, andiamo.» ammonì.
«Dove?» chiese Bucky, avanzando verso di lui.
«Al mare. Coraggio, dobbiamo andare in spiaggia.» Steve scese le scale, facendosi seguire velocemente da James, che richiuse la porta alle proprie spalle.
«E perché?» un'altra domanda confusa e preoccupata.
«Che domanda è? Andiamo al mare e basta, fanculo tutta questa merda. Andiamo al mare.»

A Coney Island Bucky non c'era mai stato, Steve invece ci aveva trascorso l'infanzia e l'adolescenza. I loro viaggi in macchina erano una di quelle cose che James adorava docilmente. Avevano l'opportunità di parlare ma anche di stare in silenzio, ascoltando la musica alla radio. In ogni caso erano costretti a star assieme, e concepire assieme l'idea limpida di sorridere per la vicinanza imbarazzata.
Grazie a quel tipo di percorsi Bucky aveva quasi del tutto rimosso la paura delle automobili, fobia rimasta dall'incidente con Brock, mai troppo grave, ma comunque immutata.

Bucky avrebbe voluto raccogliere i capelli in una molletta, come solitamente faceva con soddisfatta sistemazione, ma erano troppo pochi. Solo a toccarli nel tentativo di legarli ne cadevano una dozzina.
Quel particolare causato dalla medicina che aveva iniziato a curare l'infiammazione al suo gomito stava continuando a devastarlo. La nausea lo rendeva giallo di carnagione e il volume bellissimo dei suoi capelli stava morendo.
Di tutte le cose che Bucky aveva subìto in vita sua quella di essere privato dei capelli lo feriva forse più della malattia stessa.
A pensarci bene erano l'unica cosa che gli era rimasta, l'unico vanto, la parte esteriore che lo faceva apparire davvero Bucky. La sua malattia era così crudele che, facendo girini infiniti, lo privava di qualsiasi cosa.
Era il caso di fare tutta quella baraonda per un dettaglio simile?

Sì.
Quando si sta male la normalità è la cosa più preziosa che si possa desiderare, e quando la si viene strappata via e gettata da parte, sanguinolenta, il marchio che lascia sulla pelle rimane incandescente.

Bucky tenne il finestrino dell'auto chiuso per non permettere all'aria della velocità di scompigliare ancora di più quel disastro di capelli che gli erano rimasti sulla testa. Sentiva caldo ma lo sopportò.
Nemmeno il mare lo poteva curare, Bucky non stava bene. Steve era disperato, avrebbe dato la sua vita, adesso, pur di trovare un modo sicuro per dare serenità al suo amore.

Un sorriso strappò il volto stanco di Bucky. Alzò il capo e guardò tutte le attrazioni illuminate sull'enorme molo in riva al mare, e la musica nelle orecchie, le urla entusiaste dei bambini, il profumo di caramello e hot dog. La felicità gli sfiorò piano la mano.

Passeggiando più vicini alla vista dell'acqua calma, con in mano un panino e la luce del tramonto, arancione e rosa, che faceva da sfondo. Steve e Bucky era così vicini da poter sentire i loro odori.

«Grazie per avermi portato qui.» disse Bucky, riconoscente. Mangiò piano per non peggiorare il senso di nausea ormai quasi del tutto permanete. Lui e Steve avevano giocato al tiro al bersaglio e Bucky, molto più bravo del tatuatore e fare il cecchino, aveva vinto un gruzzoletto di punti per poter fare più attrazioni possibili. Ancora non ne avevano fatta nemmeno una.

«Qualsiasi cosa per il mio Bucky.» gli risposte, al lato della bocca aveva un po' di maionese che gli sporcava la barba folta.
«Non devi. Non sei costretto a fare qualsiasi cosa.» replicò il moro con lo stesso tono.
«Allora non hai capito proprio niente.» Steve si voltò verso di lui, continuando a camminare.
«Si che ho capito, e anche bene. Fai tutto questo per amore, inutilmente, perché io non posso gestirlo.»

Steve gli prese il viso fra le mani, gettando sbadatamente per terra la carta del proprio panino ormai finito. Richiese un diretto contatto tra i loro occhi che fece appassire lo spettacolo del tramonto. Bucky rilassò le spalle, respirando dalle labbra semiaperte.
«Tu almeno un po' mi ami?» Steve aveva nella voce una nota di paura e tristezza.
James gli afferrò un fianco con la mano destra, un gesto che fece capire ad entrambi a chi appartenesse davvero quel corpo.
«Pensi che sarei qui se fosse il contrario?» il sorriso che Bucky trasmise a Steve fu il più sincero degli ultimi venti giorni. Steve ne fu quasi commosso, rasserenato da una piccola illusione momentanea.

Entrambi si andarono in contro per baciarsi lì, nel chiasso della confusione, davanti a chiunque e senza vergogna. Bello e basta, bello, bellissimo.
Steve gli strinse la mano vergine dalle ferite e a passo veloce, per non affaticare la stanchezza del corpo di Bucky, lo condusse in spiaggia.
Lì vi rimasero fino a notte fonda, immuni dal freddo e dalla condensa. Accasciati tra la sabbia e coperti dal suono delle onde.
Bucky chiuse gli occhi sotto il cielo pieno di stelle, con la mano nella mano di Steve.

«Quando morirò devi portare il mio corpo su questa spiaggia, in questo esatto punto. Sdraiati come hai fatto oggi e tienimi stretto come adesso. In un'urna, in una scatola di legno, in una bustina, non importa, basta che mi porti con te. È questo il mio aldilà, il mio paradiso.» sussurrò Bucky con un sorriso sereno.
«Ma tu non morirai, quante volte devo dirtelo?» ribatté l'altro nervosamente.
James rafforzò la stretta nella sua mano, sospirando. La salsedine gli aveva attenuato il senso di nausea.
«Non essere egoista Steve, non privarmi dell'unica serenità che mi è stata concessa.»
«È come ti ho detto, tu non hai capito niente. Io sono la tua serenità.»

Vita decomposta ||Stucky AU|| ✔Where stories live. Discover now