CAPITOLO I

826 214 85
                                    

CROVERDALE

È ora di cambiare, continua a ripetere la mia mente. Non riesco ancora a crederci. Dopo tutto quello che abbiamo passato insieme, proprio lui Zac, mi abbia fatto un torto simile. Non riesco neanche a percepire i miei sentimenti in questo momento, sono troppo confuso, o forse sconvolto. Non saprei davvero come ordinare i miei pensieri. Sento la vibrazione provenire dalla scrivania difronte a me, ma non ci faccio caso e resto dove sono. Sul mio adorato letto, almeno lui non mi ha abbandonato nel momento del bisogno, né tantomeno mi ha tradito.
Tiro il cuscino dai lembi per coprirmi le orecchie, finché il telefono non smette di fare quell'orribile rumore. Pensavo che dopo aver vibrato per almeno una giornata intera, si fosse arreso e si sarebbe scaricato, ma invece no. È ancora lì. Ha smesso, ma la pace non durerà ancora per molto. Così decido di alzarmi per andare a fare finalmente una doccia. Ho bisogno di schiarirmi le idee, quale miglior posto della doccia? Mi trascino letteralmente verso il bagno, passando accanto al cellulare. Controllo, per pura curiosità, se si trovino solo messaggi e chiamate di Zac, ed avevo ragione. Prendo dal cassettone dell'armadio un paio di box, un pantalone nero e una t-shirt nera. In tema con il mio stato d'animo. <Mamma> dico allungando la testa verso la cucina, <sei in casa?>
Nessuna risposta, sarà uscita per andare a lavorare.
Entro in bagno ed un'ondata di gelo mi fa accapponare la pelle, probabilmente mia madre ha lasciato la finestra aperta per far arieggiare la stanza e si sarà dimenticata di chiuderla. Accendo la piccola stufa e aspetto che la stanza si riscaldi almeno un poco. Appena percepisco che la temperatura della stanza è salita, apro il rubinetto della doccia e mi ci abbandono completamente. L'acqua è tiepida, quasi bollente, permette ai miei muscoli tesi di rilassarsi. Mentre l'acqua scorre dal soffione, per passare su tutto il mio corpo come una mano delicata, chiudo gli occhi e per l'ennesima volta ritorno a quella scena. Avevo litigato con John, il mio datore di lavoro, perché avevo tardato la consegna dei miei lavori. Ma ero talmente preso dal quel lavoro che non me ne ero reso conto. Comunque lui ha deciso di non accettare più i mei lavori ed io mi sono licenziato. Presi tutte le mie fotografie dalla galleria e le caricai in macchina, prendendo il mio ultimo stipendio e salutarlo per, probabilmente, sempre. Non siamo rimasti in ottimi rapporti, così decido di andare da Zac, il mio migliore amico da sempre e di sfogarmi sull'accaduto. Io e Zac ci conosciamo da una vita, le nostre mamme erano amiche del liceo, quelle cose che si vedono nei film, che si fidanzano contemporaneamente, si sposano contemporaneamente e partoriscono tenendosi la mano. Quindi non eravamo amici ma fratelli. Cercai di chiamarlo più volte ma non rispondeva al telefono. Così entrai nella mia Aubre, una volvo nera, che mio padre regalò alla mamma per un compleanno. Ma quando lui decise di abbandonarci, lei la chiuse nel garage, non voleva averla più. Quindi l'ho ereditata io. Arrivai sotto casa sua, bussai al portone ma nessuno rispose. Presi comunque le chiavi da sotto lo zerbino ed entrai, perché le luci nella camera di Zac erano accese. <Zac sei in casa?> dissi una volta chiusa la porta alle spalle. In un primo momento non ci fu risposta, ma poi con voce gracchiante sentii Zac che diceva: <un attimo e scendo io>, ma ovviamente non lo ascoltai e salii, e fu lì che vidi la scena che mi ha portato a starmene per due giorni chiuso in camera, senza mangiare e a fissare il soffitto. Zac era alzato e si stava infilando i jeans e alle sue spalle c'era ... Victoria. La mia ragazza! Ex ragazza. Lei era nascosta dietro di lui con il lenzuolo quasi sul viso, cercando di nascondere la vergogna che le si diffondeva sul viso. Rimasi immobile, incapace di respirare. Non riuscivo a crederci, dentro di me c'erano troppe emozioni che si mescolavano. Odio, disprezzo! Non seppi cosa fare, li guardai, senza dire una solo parola. Nei miei occhi c'era sangue, sentivo bruciarli. Volevo mettere le mani al collo di Zac e costringerlo a dire cosa lo aveva portato a fare ciò. Ma mi limitai a voltare loro le spalle e andarmene. Da allora non ho voluto né vedere né sentire nessuno. Perché ero sicuro che nel momento in cui avessi rivisto Zac, lo avrei preso a botte. Non so cosa in quel momento mi trattenne, forse la nostra amicizia. Ma il termine amicizia è un qualcosa di troppo grande, che probabilmente non esiste. È solo un termine per definire quelle persone che ti aiutano ad avere una vita sociale. Ha provato più volte a venire da me, ma dopo aver avvisato mia madre che tassativamente gli era vietato entrare in camera, si è attenuto a stare fuori la porta della mia cameretta. Ripetendo scuse inutili e costringendomi a mettere le cuffie per non sentire le sue lamentele. Dopo un po' si è arreso ed è andato via, lasciando il posto a mia madre, che continuava a ripetermi :<Qualunque cosa sia successa tra di voi, non può non essere risolta con una partita alla Play.> Ma alla fine ha capito che la cosa era più grave di quanto immaginava. Il calore forte mi riporta alla realtà. Avrò passato almeno trenta minuti sotto l'acqua, tanto che le mie mani si sono raggrinzite. Esco dalla doccia e mi affretto a spegnere la stufa, visto che la stanza è diventata una sorta di sauna; infatti lo specchio è tutto appannato. Prendo un asciugamano e lo poggio in vita, mentre con un altro tolgo la patina acquosa dallo specchio. Non vedo la mia immagine da allora, così mi guardo attentamente. La prima cosa che penso è, questo non sono io. I miei occhi, di solito di un verde smeraldo, sono spenti. Accompagnati da infossature nere sotto. Non posso continuare così, devo assolutamente cambiare qualcosa, andare avanti. Prendo il phon e mi asciugo velocemente i capelli biondo scuro. Vedo anche un poco di barbetta che preannuncia di uscire allo scoperto ma non me ne curo e mi vesto. Vado in cucina per prendere qualcosa da mettere sotto i denti, così apro il frigo e prendo un succo d'arancia. Mentre chiudo la porta del frigo, leggo un bigliettino lasciato da mia madre:
"Amore di mamma..." faccio una piccola smorfia, "sono andata a lavorare. Per piacere, fallo per la mamma, mangia qualcosina. Non puoi restare chiuso in camera per sempre. Non ho voluto svegliarti quindi se avessi bisogno di me CHIAMAMI!"
Faccio un piccolo sorriso, la mamma si preoccupa sempre troppo per me. Anche se ha imparato a darmi degli spazi. È stato difficile per lei avere a che fare con un'adolescente da sola. Da quando mio padre ci ha abbandonati, lei ha sempre cercato di non farmi mancare niente. Nonostante tutti i suoi sacrifici per me, sento di non averla resa abbastanza orgogliosa di me. Poggio il biglietto sull'isola della cucina e mi avvio verso l'appendiabiti. Prendo il giubbino di pelle e lo infilo. Testo la tasca destra per vedere se le chiavi sono dove le avevo lasciate. Ma non posso uscire senza cellulare, così corro a prenderlo e poi esco. Fuori il cielo è sereno e non fa neanche tanto freddo. È piacevole stare all'aria aperta, decido di fare due passi. Cloverdale non è molto grande, è una cittadina della Columbia Britannica ad una ventina di minuti da Surrey. Nella città ci conosciamo quasi tutti <Ragazzo, è da un poco che non ti vedo!> la voce squillante mi fa voltare e vedo la signora Lizzie, la nonna di Zac, che abita a pochi metri da casa mia.
<Salve signora, sono stato poco bene quindi sono uscito poco. Lei come sta?> Era come al solito seduta nel giardinetto davanti casa sua, con la sua sedia a dondolo mentre cuciva una sciarpa, che probabilmente avrebbe regalato alla sorellina di Zac.
<Bene, bene non mi posso mica lamentare> mette la mano vicino la bocca e sussurra, <Non sono mica come la signora Ilda, che appena vede un giovincello non fa altro che lamentarsi?> Inizio a ridere <Non ha mica torto!> <Va ragazzo, va a divertirti e promettimi che verrai a trovarmi con quel disgraziato di mio nipote>
Annuisco e le do un bacio sulla guancia, prima di salutarla con la mano. Io e Zac venivamo spesso a giocare nel giardino della signora Lizzie. Aveva anche un'altalena sul retro.
Il mio stomaco inizia a brontolare, forse mamma aveva ragione. Ho bisogno di mettere qualcosa nello stomaco. Poco distante da casa mia c'è un bar nel quale fanno dei sandwich fantastici, decido di fermarmi li. Fuori la porta c'è un annuncio:
"Affittasi appartamento in Vancouver."
Non so per quale motivo ma segno il numero ed entro nel bar. Vado al bancone ed ordino il mio solito sandwich, aspetto che lo riscaldino e poi prendo posto ad un tavolino vuoto. Tiro fuori il cellulare e guardo il numero. Non ci avevo mai pensato prima ma forse è la scelta migliore, andare via. Ormai qui non c'è più niente oltre mia mamma. Qualcosina di soldi c'è li ho da parte. Il campanellino della porta, che avvisa che sono entrati altri clienti, mi fa voltare verso la porta. Senza neanche pensarci ero già in piedi. Zac, con il braccio sulla spalla di Victoria che rideva, era proprio davanti a me. Entrambi si ammutoliscono e mi guardano con la paura negli occhi. <Amico, posso spigarti tutto...> inizia Zac, ma lo ammutolisco subito con una mano. <Non chiamarmi amico, capito?> gli dico guardandolo negli occhi. <Ma io...> <Andate al diavolo!> grugnisco. Zac si fa da parte per lasciarmi passare, staccandosi da Victoria e abbassando lo sguardo. Non meritano neanche di darmi spiegazione. Persone come loro non meritano niente. Mentre cammino, anzi corro verso casa, prendo il cellulare dalla tasca. Mi fermo per prendere aria, mentre le mie dita veloci premono il tasto chiama. <Pronto? Sono Paul, in cosa posso esserle utile?> < È ancora disponibile quell'appartamento a Vancouver?> dico ancora con un poco di affanno. <Certo, allora l'appartamento non è in ottime condizioni, ma ci vuole poco per sistemarlo. Possiede una camera da letto, un bagno, una piccola cucina ed un balconcino che affaccia direttamente sulla strada. È in un'ottima postazione, vicino al Vancouver Art Gallery. L'affitto è di 400$ al mese> prende un attimo di fiato e continua <lei è interessato a prenderla?>
<Si, la prendo!> dico in tono deciso. <Bene quando sarebbe disposto lei a...> non lo lascio finire.
<Ora!>

COLLAPSEWhere stories live. Discover now